[RECENSIONE]: Gamondi Succi – La morte

Quando ci si appresta all’ascolto, lo si fa con la paura o il sospetto che sia la solita cosa che puzza di intellettualismo un po’ snob da lontano un miglio. Invece La morte ti sorprende. Impreparato, quando meno te lo aspetti, ti avvince, ti entra dentro, ti scuote.

Ovviamente si parla di morte nella Morte di Riccardo Gamondi (Uochi Toki) e di Giovanni Succi (Bachi da pietra, Madrigali Magri), uscito emblematicamente il 2 novembre appena trascorso, in cui il primo  provvede allo sfondo elettronico su cui l’altro  è impegnato in una recitazione efficace e suggestiva quanto la musica. Nei due lati del disco, infatti, vengono proposte, una via l’altra, otto brevi letture, quattro per lato, tratte da opere letterarie che spaziano dal Medioevo alla età contemporanea. Da Jacopone da Todi, l’unico autore a comparire su entrambi i lati e l’unico ad essere rappresentato da componimenti in versi, essendo il resto tutto prosa, a David Foster Wallace.

Sono riflessioni brevi secondo le prospettive diverse di autori e personaggi di tempi e provenienza vari che cercano di rischiarare, come il Griso, in un lampo di luce, per un istante, il buio enigmatico della morte, l’unico momento di cui tutti siamo certi, che tutti accomuna, a cui nessuno sfugge. Si parte con grande sorpresa dal trentatreesimo capitolo dei Promessi sposi, dalla peste che don Rodrigo riconosce e deve accettare perché presto verrà la fine, e si passa al Muro di Jean-Paul Sartre, in cui quella fine si aspetta all’alba, perché a parlare è un condannato alla fucilazione, per continuare con la malattia misteriosa allo stato terminale causa della Morte di Ivan Il’ič secondo Tolstoj, tutto per via del fianco sbattuto alla maniglia della finestra. Si conclude, prima di cambiare lato, con la ballata Quando t’allegri, omo d’altura di Jacopone da Todi, che dall’originale struttura dialogica si tramuta in un monologo di ammonimento di grande impatto.

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Nel secondo lato l’attenzione è più sui contemporanei, con Giovanni Manganelli in apertura e David Foster Wallace in chiusura. Del primo ascoltiamo un bellissimo passo tratto Dall’inferno, in cui il tema della morte è accostato efficacemente a quello della defecazione, mentre del secondo ˗ la cui scelta, sia detto per inciso, non può far che sorridere pensando a Hipsteria dei Cani ˗ è forse il contributo meno interessante, in quanto incentrato sull’abusato tema del tempo che fugge ineluttabile, trattato con non troppa originalità. In mezzo vengono un brano tratto da Palomar di Italo Calvino, in cui la morte immaginata è quella di tutto il genere umano, e un altro componimento di Jacopone, Sì como la morte face a lo corpo umanato, uno dei vertici del disco.

Sebbene tutto sia recitato con perizia e tutto s’insinui sottopelle, toccando sia le corde emotive che quelle razionali e spingendo nel contempo alla commozione come alla riflessione, nulla eguaglia la forza dei versi antichi di Jacopone, recitati con inaudito trasporto da Succi, la cui suggestione genera una cascata incessante di brividi, che dalla punta dei capelli scorre a quella dei piedi. Nel secondo contributo del predicatore il ritmo antico si adatta addirittura al beat moderno, l’unico a battere in tutta l’opera, con esiti a dir poco sbalorditivi.

A contribuire notevolmente alla presa sull’ascoltatore si dispiega il terreno elettronico, a cura di Gamondi, da cui tutto germoglia. Esplodono per tutto ricoprire i bassi tellurici imbanditi in un’orgia sensoriale che serve ad agevolare e portare al culmine la sollecitazione delle parole, mentre tra le loro fitte maglie s’intravedono altri suoni e altri rumori che vengono da lontano.

Tutto per suggerire in poco meno di quaranta minuti un’apparenza di morte, che è ˗ chi l’avrebbe detto? ˗ «come mi sento al crepuscolo della domenica, l’inverno».

Luca Amicone

Redazione musicale

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