[RECENSIONE]: Calvin Harris – 18 Months

Con album così sai già cosa ti aspetta. Non soltanto per la totale prevedibilità dell’artista o presunto tale, ma anche perché, come già accaduto con l’ultima uscita di Dj Fresh (recensita qui), l’album esce a più di un anno di distanza dal primo singolo. Così, del “nuovo” lavoro dello scozzese Calvin Harris – all’anagrafe Adam Richard Wiles –, tra singoli e passaggi radiofonici, si conosce già la metà delle tracce. E non perché le si è semplicemente orecchiate; no, le si conosce a memoria, dalla prima all’ultima nota, tanto che pare di avere in mano un greatest hits. Infatti sono qui raccolte le tracce prodotte da Calvin e cantate da una parata di stelle, in coda a prendere il numeretto, nel corso degli ultimi 18 mesi, come titolo vuole. Sì, Calvin, abbiamo capito il giochetto.
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Non a caso, dopo Green Valley, che è la prima di quelle tracce sotto i due minuti che funzionano da introduzione/intermezzo, si parte subito con il primo singolo, Bounce. A dispetto del tempo trascorso, questo brano riesce ancora a farsi ricordare dalla prima nota, grazie alla musichetta da videogioco dei tempi andati, il synth stridente, il beat che esplode nel ritornello, e i versi efficaci di Kelis.

Per la traccia successiva, Feel So Close – l’unica in cui si incarica del canto lo stesso Harris – confesso di aver avuto sempre un debole, da quando per la prima volta incappai nel video una mattina di fine estate. I versi belli e delicati scanditi da quella voce imperfetta ma così umana («I feel so close to you right now / It’s a force field»), tremanti sulle note di un piano e sul beat pulito, prima di un’irresistibile progressione, hanno aperto una breccia nel mie iniziali resistenze. Invece, We’ll Be Coming Back, cantata da Example, con gli inserti di chitarra e le pretese di canzone da stadio, è stata quest’anno l’infatuazione di un caldo giorno estivo, presto dimenticata.
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Dopo l’intermezzo di Mansion, dal beat fluido e i synth insistenti prima dell’ingresso del basso acido nel finale, viene Iron, in cui ci mette lo zampino Nicky Romero. E allora vai di EDM più deleteria con tanto di basso vorticoso in stile dubstep e vocals mielosi appropriati, cioè odiosi. La totale insopportazione è raggiunta dal trambusto finale, quando tutti gli elementi sono spinti al massimo.

A questo punto Calvin si è giocato quasi tutte le sue poche cartucce e a dimostrarlo stanno le tre tracce successive, I Need Your Love, Drinking from the Bottle e l’ultimo singolo, Sweet Nothing, che soffrono dello stesso problema: se si tenesse conto solo della musica – EDM generica e scipita, aggravata dal fatto che lo scozzese tende a bloccarsi sulla stessa identica formula, evidentemente vincente, ma che rende l’album omogeneo e sempre uguale – sarebbero semplicemente pessime. Meno male che i cantanti sono di tutto rispetto e ne risollevano un poco le sorti. Nell’ordine vengono Ellie Goulding, al solito dolcemente fragile, Tinie Tempah, che spara i versi più divertenti («I’m in it busy looking for the next top model / Who’s wearing something new and something old and something borrowed»), e Florence – questa volta meno la Macchina – che ha il giusto atteggiamento da diva.
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A seguito dell’ultimo intervallo, School, per nulla malvagio, anzi elegante se paragonato a ciò che lo circonda, c’è infine qualcosa di diverso. Si tratta di Here 2 China, traccia grime in piena regola – e chi se lo sarebbe aspettato –, affidata niente meno che al re Dizzee Rascal, che così si sdebita di Dance wiv Me. Come avviene usualmente nelle collaborazioni, il rapper inglese è alquanto rilassato, praticamente in vacanza, ma al solito godibile («Getting in from here to China»).

Poi irrompe Let’s Go con il suo beat quanto mai esplosivo e i synth irrefrenabili su cui salta a cantare Ne-Yo. Ormai non si contano più le volte in cui s’è sentita, una persecuzione. Awooga, invece, è l’unica traccia di lunghezza accettabile del tutto strumentale. Stando alle contrastanti spiegazioni dell’Urban Dictionary, il titolo potrebbe indicare sirene, allarmi o cose del genere. Infatti il ritorno di una musichetta da videogioco fa alternativamente spazio a una pioggia impazzita di laser. A temporale finito si chiude, dopo che si è un poco stremati, con Thinking About You, affidata ad Ayah Marar, sicuramente la collaborazione meno importante. Tuttavia la cantante inglese non è niente male e nel ritornello ha quasi una sfumatura funky che non dispiace.
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Ah, ho volutamente tralasciato un’ultima traccia, facilmente prevedibile. Hai avuto un colpo di fortuna come ne capitano raramente nella vita, che ti ha tinto i capelli d’oro, dato persino un’abbronzatura e portato a far concorrenza a David Guetta, e vuoi far finta di niente? Certo che no. Ovviamente stiamo parlando di We Found Love, traccia che tutti abbiamo ascoltato almeno una volta nella nostra esistenza, altrimenti non si è di questo mondo. E se non avete il coraggio di dirlo, lo faccio io: è anche molto bella. L’unica cosa da aggiungere è che qui è presentata, prevedibilmente e modestamente, come Calvin Harris feat. Rihanna. Sì, Calvin, sappiamo che l’hai fatta tu.

Luca Amicone

Redazione musicale

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