È l’inizio dell’anno accademico e, come ogni anno, i buoni propositi di cimentarsi in nuove attività non si contano. Ed è così che in un tardo pomeriggio d’inizio Ottobre mi ritrovo ad un corso base di portoghese. Pronta ad immergermi nel mondo del samba, carnavão e caipirinha, il nostro insegnante, per rompere il ghiaccio, ci chiede perché abbiamo deciso di iscriverci a questo corso. Siamo una quindicina e almeno 5 partecipanti si sono iscritti con la speranza di un futuro trasferimento lavorativo in Brasile.
Shock. Mi sono sempre ritenuta una persona aperta a nuove culture, curiosa di esplorare altri mondi, al limite dell’esterofilia. Ma, all’improvviso, immaginarmi costretta a spendere la laurea in qualche altro emisfero del globo terracqueo mi destabilizza, almeno un po’.
Stupore ingiustificato, direte voi. Che cosa ci si può aspettare da una società in piena crisi economica, con una disoccupazione giovanile ai massimi storici (a settembre 2012, secondo ISTAT la disoccupazione under 25 è al 33,9)? E poi, cosa c’è di strano? Lo sanno tutti – o quasi- che noi italiani non siamo affatto nuovi alle migrazioni. Riportare un numero definitivo e attendibile dei migranti italiani è praticamente impossibile ma, giusto per attenerci al caso brasiliano, fonti più autorevoli della sottoscritta (Ambasciata d’Italia a Brasilia) ci ricordano che, oggi, solo in Brasile vivono quasi 25 milioni di discendenti di immigrati italiani, di cui 300 mila possiedono il passaporto italiano.
La migrazione non ci ha mai spaventato, a quanto pare. E un po’ ci piace pensare di poter ritrovare qualche goccia di italianità sparpagliata in ogni angolo della Terra. Ma il punto è un altro.
I neo-migranti sono cervelli in fuga, in gran parte. Sono cittadini istruiti e nelle loro valigie ci sono lauree, master e PhD. Ci sono anni di studio, preparazione altamente qualificata, know-how e competenze che potrebbero fruttare qui e invece sono costrette a svilupparsi altrove. È davvero intuitivo: costringere alla fuga queste persone è uno spreco immane. Calcoli riportati da La Stampa nell’agosto 2012 denunciano perdite economiche che, in proiezione ventennale, potrebbero arrivare a superare i 780 milioni di euro. Ed insisto a chiamarlo spreco, non semplicemente perdita, perché il fatto perverso è che spendiamo soldi -soldi pubblici, per lo più- in investimento umano, culturale, sociale ed economico e poi, di questo sacrosanto investimento, troppo spesso, non raccogliamo i frutti. Siamo di fronte all’ennesimo spreco made in italy.
È davvero intuitivo, eppure, a fronte di questa ovvietà, non mi sembra che la questione abbia un qualche rilievo nel dibattito pubblico. Perché? È normale pensare di non trovare lavoro nel proprio paese? È una realtà alla quale dobbiamo abituarci ed arrenderci? È un lusso che non possiamo più permetterci, quello di lavorare nel paese e per il paese che, nel bene e nel male, ci ha formati? Ma soprattutto, in un momento di depressione economica come quello che stiamo attraversando, in cui sembra che il destino di tutti dipenda dalle capacità di ripresa della crescita, non è questo il più grande spreco pensabile di potenziale? Il più assurdo ed incalcolabile costo sociale ed economico?
Ecco: arriva la parte delle risposte e, come al solito, io non ne possiedo nemmeno una. Perciò per un attimo mi concedo una pausa: spengo il cervello e alzo il volume. Chega de Saudade, cantava qualcuno. Speriamo solo di non dover cantare Goodbye Malinconia tra qualche anno, in qualche altro continente, invasi dalla nostalgia –nonostante tutto- per il Bel Paese.