La domenica sera al Festival Era si presenta come piuttosto gremita di pubblico. L’attesa ovviamente è tutta per l’opera della compagnia pisana Sacchi di Sabbia, che raccontano una storia di fantascienza, forse “il” classico della fantascienza anni Cinquanta, cioè “L’invasione degli Ultracorpi” di Jack Finney.
In quell’opera, solo marginalmente fonte d’ispirazione per la pièce, viene richiamato un topos che poi ha avuto molta fama: il clone, il sostituto uguale ma diverso. In “Il ritorno degli ultracorpi (science fiction)” portato sulla scena dai Sacchi di sabbia, il tema del clone è presente, e perciò ricollega l’opera a un filone davvero ampiamente battuto da autori come Menandro, Plauto, Shakespeare, i Comici dell’Arte, Moliére, Goldoni , per citarne solo alcuni.
L’incipit vero e proprio è offerto dall’immagine di un mondo in forma di tappeto ‘sbattuto’ da due addetti alle pulizie, che parlano una lingua incomprensibile. Sappiamo però che cosa dicono attraverso i sovratitoli proiettati sullo sfondo. E intuiamo che individui dai nomi extra-terrestri hanno fatto una fine misera.
Indizi ulteriori arrivano dal pensiero di alcuni filosofi. Pitagora riteneva che contenessero l’origine del male, Aristotele, da parte sua, riteneva che fossero un alimento molto salutare: sono i baccelli, noti anche come fave. Ecco dunque il plot: l’invasione della Terra da parte di semi che nel sonno si appropriano dell’anima degli umani. Segue un divertente duetto fra una crisalide ancora in formazione, parlante un dialetto lucano (?) e disperata per una sorta di bontà virale che sembra essersi impossessata dei suoi pensieri, ed una già formata, parlante russo e per nulla insoddisfatta della sua nuova condizione. Il tema del doppio è certamente un argomento chiave di questo lavoro.
Lo spettacolo è esilarante per l’utilizzo di questa “lirica dialettale”. Il richiamo alla farsa è evidente in molti aspetti, ed è un elemento che ha costituito il background dei singoli componenti della compagnia pisana. Ma non c’è solo la farsa, c’è anche gusto per la parodia e per il divertissement letterario, con l’interpolazione assolutamente riuscita dell’ “Aida” di Verdi.
Il tema dell’identità diventa quindi lo sfondo morale in cui si distende la farsa, la sua carica esilarante. Il “doppio” è peggiore dell’originale? Il finale rimane piuttosto sospeso. L’opera è stata apprezzata dal pubblico e non sappiamo se possa riservare per il futuro ulteriori evoluzioni. Le due “liriche dialettali”, come alla compagnia piace definirle, hanno contribuito, in tal senso, ad una duplice ma comune riflessione sull’inspiegabile e sull’oltremondano.
Giuseppe F. Pagano
Redazione News