Il Festival Era e la sfida al contemporaneo

Nell’arco di ventiquattro ore il Festival Era ha regalato davvero grandi spettacoli tra Pisa e Pontedera. Tutto comincia con il venerdì sera al Teatro Rossi di Pisa, con una performance di “Lisboa”, pièce della giovane regista danese Anna Stigsgaard. Questo spettacolo, che trova la sua naturale collocazione in ambienti urbani, come piazze e strade, l’avevamo visto già al Collinarea 2012 a Lari. Già allora aveva emozionato il pubblico, grazie anche all’atmosfera che si respirava nel piccolo borgo.

Nel Teatro Rossi di Pisa ha regalato emozioni forti, anche grazie al genius loci dell’edificio, sino a poco tempo fa usato dal Comune di Pisa come deposito di biciclette. Tutto lo spettacolo ruota attorno alla figura di Fernando Pessoa, a Lisbona, al “Libro dell’inquietudine”, ma vi è un uso davvero speciale delle biciclette. Queste diventano infatti nello spettacolo parte della coreografia, con ampi giri di danza, cadute, composizioni geometriche. Lo spettacolo quindi viene adattato agli spazi antistanti il teatro e, ovviamente, gli interni della platea. La combinazione è molto felice, e ascoltando il canto armonizzato delle attrici (sono in maggioranza donne) ho provato lo stesso nodo in gola che avevo sentito a Lari.

Il pubblico accorso era numerosissimo, quasi duecento persone. Bisogna sottolineare pure come lo spettacolo all’interno del Festival Era fosse stato programmato in più repliche, in diverse frazioni di Pontedera, come Treggiaia, Gello e Santa Lucia. Il “fuori-programma” pisano ha giovato assolutamente a questo spettacolo, perché ha attratto un pubblico piuttosto variegato e artisticamente onnivoro. Dall’altro verso “Lisboa” ha arricchito il già denso cartellone spontaneo del Rossi, da diverse settimane punto di riferimento obbligato in città per chi ama l’arte e le sue reciproche contaminazioni tra linguaggi. Lisboa, che mescola musica, danza, recitazione e arte circense, ha manifestato egregiamente questo connubio.

Arriviamo dunque a Pontedera, al Teatro Era per l’esattezza, che ha visto sabato sera due spettacoli di gran pregio: “Soprattutto l’anguria” di Massimiliano Civica e “Requiem for Pinocchio” di Simone Perinelli. Lo spettacolo di Civica è una prima regionale, e mette in scena un testo di Armando Pirozzi. Sul palco si consuma il complicato tentativo di un uomo di ristabilire un dialogo con il proprio fratello. La pièce si compone così di due universi, uno densissimo di parole, l’altro completamente immerso nel silenzio. La messa in scena punta a pochi ed essenziali elementi scenografici, il fuoco è quindi interamente rivolto al dialogo mancato tra i due fratelli, sullo sfondo di un dramma famigliare che all’inizio del testo appare un affresco grottesco e surreale, ma che pian piano scivola verso un’atmosfera reale, nervosa ed emotiva.

L’occasione di questo incontro/non-incontro è data dalla presunta morte del padre. Il fratello logorroico si interroga sul passato, su dio, sulla moda dei divani a forma di seno, sulle camice, sui cantanti che non sanno scrivere canzoni. L’incipit è dei più brillanti, con ritmi molto serrati, e l’uso di battute che possono ricordare vagamente l’humor ebraico. Ma per quanto il testo all’inizio susciti il riso, in realtà l’opera non ha niente di comico. È quasi una riflessione filosofica, per quanto allucinata in alcuni tratti, sul tema della verità, delle molteplici manifestazioni della realtà, con il tentativo di sostituire una verità tragica con un’illusione.

Il ruolo dell’attore silente è tutt’altro che minore. Lavora di più, infatti, sulla temperatura delle emozioni, sulla mimica facciale, sulle posture, sugli scatti nervosi, sulle risate isteriche, sullo sguardo. L’ultimo atto del fratello silenzioso è il pianto, l’unica risposta possibile di fronte alla verità che ritorna sulla scena, con la sua carica distruttiva. Grande attenzione, nella messa in scena, è data alla prossemica dei corpi, che scrive un ulteriore trama sulle distanze e sulle vicinanze negli ambienti familiari.

Lo spettacolo soffre nella seconda parte di un rallentamento del ritmo, e per diverso tempo ci si interroga su dove il testo andrà a parare. L’ipnosi della verbosità (talvolta letteraria) del fratello parlante conduce lo spettatore all’impazienza, ma nei “dialoghi” finali questa sospensione si scioglie. Quello che colpisce del testo, oltre ai suoi significati ultimi, sono le tante stilettate alla società contemporanea, dove per contemporaneo s’intende tutto ciò che va dagli anni ’60 ad oggi. Il riferimento continuo alla spiritualità orientale del padre, alla missione della madre in Africa, alla sorella che vive in un igloo, sembrano non lasciare scampo neanche alle fughe individuali.

La serata di sabato si chiude con lo spettacolare monologo di Requiem for Pinocchio. Non ci sono davvero parole efficaci per descrivere una pièce così complessa nella sua semplicità. La storia è questa: Pinocchio vuole tornare indietro, alla sua identità di burattino. La trasformazione in bambino lo ha proiettato in un mondo che ha ben poca “umanità”. Sullo sfondo c’è un processo, in cui Pinocchio si professa innocente delle accuse a lui ascritte, ed ecco la richiesta che l’ex (ormai) burattino fa al giudice: “approfitterei Vostro Onore dell’udienza per chiedere di tornar allo stato naturale delle cose, che, senza offender nessuno voler, da essere umano proprio non mi trovo. Poiché da burattin mai nessuno mi disse che divenir bambin significasse poi crescere diventare ometto, uomo, vecchio e poi morire. Ma la morte niente poi sarebbe, se non fosse che nel bel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai a dover lavorar per campare e la via della felicità s’è smarrita!”.

In questo spettacolo, pluripremiato, Simone Perinelli è insieme autore, regista e unico interprete. La recitazione si snoda tra cambi di registro vocale, movenze marionettistiche, ginnastica, e recitazioni con un flow quasi da rapper. L’universo di Pinocchio è quello della contemporaneità, tra citazioni pubblicitarie, vessazioni lavorative, persecuzioni politiche, inseguimento del profitto. Alla fine il burattino ha ragione nel reclamare il ritorno all’universo della fiaba “verista” di Collodi. Ma la fatina, diventata una femme fatale, gli nega il ritorno alla natura di burattino e piuttosto si finge morta.

Diverse le citazioni nello spettacolo, da Amleto sino alla Divina Commedia. Davvero azzeccate poi le scelte delle musiche che fanno da sfondo alle parti più ritmate del monologo, come le note di Pasquale Catalano (colonna sonora de “Le conseguenze dell’amore”), Chemical Brothers, Underworld.

Alla fine dello spettacolo arrivano applausi a scena aperta, tributo meritatissimo per questo lavoro che, soprattutto nella parte finale, sa persino commuovere. La scrittura di Perinelli è geniale e ti prende a schiaffi in un crescendo vorticoso. Lo sguardo “alieno” di Pinocchio è il miglior specchio in cui leggere le storpiature di un’umanità incasellata nella triade “cresci, consuma, crepa”. Essere un burattino oggi è, paradossalmente, un ritorno all’innocenza.

Giuseppe F. Pagano

Redazione news

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