Il riscatto del cesso.”Giù” di Spiro Scimone al Festival d’Era.

La forma ad imbuto dei cessi può essere la metafora più efficace per descrivere il blocco generazionale, una gioventù letteralmente ingorgata (e inghiottita) nel cesso. E il cesso è l’unico luogo che, pur facendo parte della quotidianità, è ridotto a un rango d’inferiorità, di osceno. È un oggetto da nascondere agli occhi degli ospiti e anche ai propri occhi. Raramente si troverà un cesso che dà sul salotto o sulla cucina. E poi, come diceva qualcuno, il cesso è sempre in fondo a destra.

Poi un drammaturgo messinese molto quotato, Spiro Scimone, colloca provocatoriamente una tazza del cesso al centro di una scena teatrale. Un bel, grosso, cesso, all’interno di un bagno disadorno e irreale. Ancora più irreali i discorsi che attorno al cesso trovano il loro punto focale, come se il sanitario rappresentasse il falò di una tribù di nomadi, attorno a cui raccontarsi l’epos della propria identità e della propria memoria. C’è del nomadismo attorno ai cessi perché solo passando da un cesso all’altro è ormai possibile farsi strada nella vita, parafrasando Scimone.
L’epos del cesso vede da un lato il padre, che come ogni mattina va a radersi allo specchio, e tre personaggi che dalle viscere della tazza affiorano per narrare di un mondo sotterraneo, di vinti, di gente che è stata collocata ai margini per non aver ceduto a dei compromessi. Una mattina si sono ritrovati così, dentro al cesso, così come una mattina Gregor Samsa si è svegliato con le sembianze di un insetto. I personaggi sono i più vari: il figlio, don Carlo (prete “scomodo”) e il sagrestano, tutti finiti nelle fogne per colpa del marcio che sta “su”.

Le suggestioni impresse da Scimone, e dirette in scena da Francesco Sframeli, richiamano le pene dell’Inferno dantesco, personaggi dalle pose kafkiane, e dialoghi ricordano Beckett. La formularità delle frasi, la loro struttura semplice e limpida, la loro ritmica, conferiscono ai dialoghi un’atmosfera di assurdo. Ma questo assurdo non è poi tanto lontano dalla realtà fuori dal palco. I cessi sono cessi, non c’è molto spazio per l’allegoria, e i personaggi, per quanto stralunati possano apparire, raccontano senza fronzoli un’umanità offesa, la cui psicologia è intelligibile in poche frasi. La condizione condivisa della “scomodità” (perché stare dentro i cessi, tra sciacquoni e coliti, è una condizione difficile), riscatta questo spicchio d’umanità dannata. E poi ci sono quelli che cacano, ovviamente dall’alto, dicendoti che piove.
Emblematica è la frase che il figlio rivolge al padre: «Questo cesso l’hai costruito tu, con i tuoi sacrifici… dopo tanti anni di lavoro… E grazie al lavoro che tu hai fatto in questi anni, io adesso, mi ritrovo con un futuro in questo cesso!».

Come non vedere in queste pochissime frasi il conflitto generazionale che è in atto, in cui gli sprechi e le colpe dei padri ricadono sui figli, spesso innocenti, che da un giorno all’altro si ritrovano con la testa nel cesso. E altrettanto emblematiche sono le figure del prete “scomodo”, che bestemmia contro Dio quando non trova la carta igienica, mentre tace sulle violenze subite dal sagrestano, ma dentro al cesso trova il coraggio di testimoniare. E anche il sagrestano, nel contagio della vergogna collettiva, trova proprio nel cesso il coraggio di ribellarsi contro gli abusi subiti e di parlare. Un cristo, un povero cristo, rimane fuori dalla scena, ma è presente con il canto. È quel “povero Cristo di Ugo”, che preferisce cantare sotto un ponte, condannando peraltro figli e moglie a questo stesso destino, invece di accondiscendere alle richieste del “mercato”. Ugo, questo dio minore, è colui che rappresenta l’anti-eroe in un mondo di cloache a cielo aperto, pieno “ignoranti ma furbi”.

L’opera di Scimone, nella sua sospensione tra dramma collettivo e comicità, è davvero trascinante. Il fatto che non vi siano vie d’uscita (alternative al cesso, s’intende) non dà all’opera un’aura di cinismo. Il contributo degli attori, in cui figurano lo stesso Scimone e il regista Sframeli, è eccellente. La leggera pronuncia siciliana di Scimone, avvertibile mentre recita la parte del “figlio”, rende il personaggio più curioso e affascinante. Una menzione a parte merita la figura di don Carlo (Francesco Sframeli), semplicemente straordinario nell’uso della mimica, dei silenzi, della dinamica di voce. Forse c’è qualche stasi retorica di troppo nel racconto del sagrestano, ma si tratta tutto sommato di nei trascurabili nell’economia dell’intera opera. Moti ascendenti e discendenti, dentro al cesso, permettono a questi personaggi di condividere il bene prezioso dell’aria. C’è una solidarietà tra questi figli di un dio minore che, così, cercano di evitare la prevaricazione del mondo di “su”, dove tutti annaspano per respirare la stessa aria. Al padre non rimane, alla fine, che constatare l’assurdità del mondo di “su”, e buttarsi lui stesso nel cesso. Così anche il quarto personaggio si sottrae all’egoismo e all’indifferenza, preferendo così l’esperienza diretta del cesso alla frequentazione dei cessi. E non è poco.

G. Flavio Pagano

Redazione Musicale

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