I grandi avvenimenti a Pisa possono trovare il loro incipit anche in giorni “comuni”, come un giovedì 27 settembre. Accade che un folto gruppo di ragazzi, non etichettabili sotto nessuna sigla sinora nota, dopo una serie d’incontri preliminari decide di togliere gli indugi, e finalmente apre il pesante portone del Teatro Rossi, gioiello quasi del tutto misconosciuto del centro storico pisano.
La storia di questo teatro all’italiana è poco nota, se non agli storici dell’arte. La sua costruzione risale al 1770, ma solo dal 1878 prende il nome di Ernesto Rossi, celebre attore livornese. La costruzione, su progetto di Zanobi del Rossi, fu piuttosto spedita: l’inaugurazione del teatro si colloca un anno e qualche mese dopo l’inizio dei lavori. La prima opera rappresentata fu “L’Antigono” di Pietro Metastasio. Per tutta la fine del settecento fu intensamente utilizzato, infatti all’epoca il Granduca Pietro Leopoldo risiedeva spesso a Pisa in inverno. Dopo la costruzione del Teatro Regio (detto poi Verdi), del 1867, inizia la decadenza del Teatro Rossi, che nel frattempo aveva avuto diversi passaggi di proprietà. Tra gli interventi più rilevanti che sono stati apportati alla struttura, oltre all’ingresso con colonnato neoclassico del 1824-28, vi sono le gallerie dell’ultimo ordine, introdotte da Pietro Studiati nel 1912, sul modello del teatro “La Pergola” di Firenze.
L’avvento del cinematografo sancisce una riconversione d’uso dello stabile, che diventerà per l’appunto una sala per proiezioni per il periodo precedente e successivo alla seconda guerra mondiale. Sarà persino sede per riunioni di partito e ring per incontri di pugilato. Nel 1966 viene dichiarato inagibile, a causa di dissesto del terreno sottostante, e si avvia verso la stagione dell’oblio. L’edificio è stato così sfruttato dal comune come deposito di biciclette, e solo dagli anni Ottanta in poi si collocano i primi interventi di restauro e messa in sicurezza ad opera della Soprintendenza dei Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici di Pisa, che aveva preso in custodia il teatro. Gli interventi però si fermano a metà degli anni Novanta, e da allora si attende che siano stanziati altri fondi per un recupero totale del teatro.
La situazione con il passare degli anni è diventata ancora più difficile. Lo scarso interesse dimostrato dai governi per i Beni artistici e culturali, la crisi economica, la spending review di Mario Monti, e tutto ciò che ne deriva, lasciano presagire che l’attesa di questi fondi sia piuttosto vana. Il risultato è così paradossale: un teatro in buone condizioni di mantenimento e di così rilevante pregio architettonico viene lasciato al guano dei piccioni e messo sottochiave. Nel frattempo però vediamo portafogli che si aprono a fisarmonica per opere mangia-soldi come il “People mover”, un progetto di collegamento tra Stazione Centrale e Aeroporto, di importo complessivo pari a circa 78 milioni di euro al netto dell’iva, di cui 28 milioni stanziati dalla Regione Toscana, per un tratto di appena 1 km e 700 metri.
Se però l’attesa è vana, ciò non vuol dire che i diritti si conquistano nel dormiveglia. Pertanto un nutrito gruppo di operatori artistici, studenti universitari e precari dello spettacolo, particolarmente attento alla tematica degli spazi culturali di Pisa, ha deciso di mettere la sveglia direttamente nell’orecchio della Sovrintendenza. Ed è stata lodevole l’iniziativa di tenere aperto il teatro da giovedì sino ad oggi, con una serie di lezioni, spettacoli, assemblee, che non solo hanno mostrato agli occhi della cittadinanza e degli studenti questo gioiello settecentesco, ma questo fermento ha dimostrato come questi spazi possano essere organizzati dal basso, con strutture orizzontali.
L’esperienza pisana si ricollega perciò in quel quadro virtuoso rappresentato dalle “liberazioni” della Torre Galfa a Milano, del Teatro Valle di Roma, del Teatro Garibaldi di Palermo, e tanti altri percorsi che da giugno ad oggi hanno portato l’attenzione della cittadinanza sul “recupero” e sulla restituzione di questi beni comuni.
È corretta l’espressione di beni comuni, non solo quando si parla di acqua pubblica, ma anche di spazi culturali. Beni comuni, non solo perché appartengono alla collettività, ma anche perché sono necessari come lo è una rete idrica per una città. Da diverso tempo a Pisa è stato avviato, da più parti, un dibattito sugli spazi comuni, sui luoghi di creazione del sapere e di fruizione artistica, ed è sotto gli occhi di tutti come il teatro Rossi, nella mappa delle “industrie culturali” pisane è un tassello importantissimo. La zona in cui sorge, attigua alla facoltà di Lettere, è completamente deserta dalle otto di sera in poi, inoltre la vicina piazza Carrara è utilizzata come un banalissimo parcheggio. Si tratta di una zona che dal punto di vista delle potenzialità può dar tantissimo alla città.
Di fronte alla politica urbanistica strabica del Comune di Pisa, che nel suo Piano Integrato di Sviluppo Urbano Sostenibile si è prodigata nel creare le linee guida per una città-vetrina ad uso e consumo dei turisti, diventa perciò urgente avviare un percorso dal basso, all’interno di una geografia vissuta. Il dito contabile puntato sopra carte topografiche ha creato solo ecomostri a Cisanello. Solo chi vive materialmente i luoghi della città, ne conosce limiti e potenzialità, e soprattutto ne conosce i bisogni veri, possiede una scala di priorità d’intervento affidabile e condivisa. Proprio un percorso di questo tipo diventa fondamentale nell’individuare quali sono le urgenze per il Teatro Rossi. Non c’è bisogno certo di un recupero formale, filologico, in cui gli stucchi siano rimessi sugli intarsi, mentre il palco rimane pericolante. L’obiettivo è perciò un recupero funzionale, quello che nel più breve periodo possibile sia in grado di mettere almeno la platea a disposizione di lezioni, piccoli concerti, performance, installazioni e mostre.
La particolarità dello stabile è proprio la sua conformazione, da teatro all’italiana, con una platea che potrebbe essere utilizzata per mettere in comunicazione visiva diretta artisti e spettatori, andando oltre quelle che erano le esigenze sceniche del teatro barocco. La dialettica tra epoche diverse, tra usi e necessità artistiche di età granducale e produzione artistica contemporanea, crea di per sé uno spettacolo tacito al momento dell’ingresso in questo teatro. Ho avuto il piacere di assistere in questi due giorni a diverse riunioni, e anche le assemblee fanno parte di questo spettacolo, che non è barocco e vuoto come i tanti tavoli e le tante conferenze in cui trionfano i discorsi di cartapesta di sindaco, assessori e consiglieri. Qui vige una drammaturgia della realizzabilità, del dialogo aperto a tutti, persino quando si deve decidere sulle materie più pratiche.
Va da sé che questa esperienza parta con l’idea di attrarre nuove energie, contributi, testimonianze da parte di chi vive la città, e vede in questo teatro la possibilità di aprire percorsi nuovi, che vadano un po’ oltre i cartelloni di settore, ma che si aprano ad una contaminazione tra linguaggi. Gli open stage di venerdì e sabato sera hanno offerto un’immagine suggestiva di quali sono le potenzialità di questo luogo. Se la Sovrintendenza dovesse dire “le casse sono vuote”, occorrerà perciò inventarsi un progetto collettivo, con la partecipazione di Università di Pisa, privati, associazioni, persino imprese e fondazioni, che vogliano contribuire a un recupero funzionale del teatro. Il costo sarebbe sensibilmente ridotto rispetto ad un investimento per un restauro totale, e avrebbe il vantaggio di consegnare a Pisa il suo teatro in tempi ragionevolmente brevi.
Dalle assemblee è emersa l’intenzione di andare oltre domenica con l’apertura del Teatro, ma quello che era evidente dal dibattito era l’assenza di contorni ideologici. Non è il classico gioco dell’occupazione, realizzata affinché l’Io artistico di qualcuno possa realizzarsi nella sua contrapposizione contro il mondo. Durante le assemblee è stato molto utilizzato il termine “noi”, e l’intenzione non è quella di contrapporsi alle autorità ma di avviare un proficuo dialogo. Proprio per questo non possiamo chiamarla occupazione, perché di antagonismo se n’è visto ben poco. Possiamo semmai parlare di “liberazione”, senza eroi, ma con molti protagonisti e, soprattutto, molte idee concrete. Questa liberazione è perciò un esempio di democrazia sostanziale: la città, la sua sanior pars è dentro quelle mura. La sfida adesso è che le istituzioni aprano gli occhi non solo sull’importanza della struttura in quanto tale, ma anche del luogo-teatro Rossi in quanto avvenimento di un incontro, incrocio di relazioni, e perciò un contributo identitario e collettivo forte proprio in una città che rischia di diventare un non-luogo utile come fondale per cartoline. Riportare alla vita quel teatro, nonostante la decadenza degli stucchi e degli ornamenti, ha proprio questo risvolto simbolico impareggiabile.
Giuseppe Flavio Pagano