Il titolo ricorda vagamente un’opera di Fichte che tanto inquietava le ore di filosofia a liceo: “I discorsi alla nazione tedesca”. Per fortuna Ascanio Celestini non è Fichte, e il suo “Studio per uno spettacolo presidenziale” che debutta a Lari non è filosofia, ma feroce e lucidissima analisi “anatomica” della società contemporanea.
Per il Festival Collinarea, nel penultimo giorno di cartellone, abbiamo la possibilità di assistere a quello che è ancora uno spettacolo pilota, uno “studio” per l’appunto, che farà da preludio a un’opera più compiuta che andrà in scena l’anno prossimo. Tuttavia, sembra quasi tutto già delineato, dai personaggi, al filo conduttore dell’opera.
Lo spettacolo si apre con un esordio molto colloquiale… “Io sono di sinistra, però…”, in cui una maschera-tipo del vecchio (o nuovo?) militante di sinistra progressivamente cerca d’immedesimarsi nell’altro, e lo fa così tanto che senza apparenti forzature chiude il suo discorso con un saluto romano. Celestini in questo “personaggio”, meno raro di quanto si pensi, racchiude il senso di smarrimento identitario che effettivamente ha colto non solo la classe politica, ma persino il suo elettorato. Un elettorato di sinistra che da internazionalista diventa improvvisamente attaccato ai riti della nazione, che da pacifista si trasforma in indifferente e poi ancora in guerrafondaio. Questo preludio ha lo scopo di rompere il ghiaccio, in attesa dello spettacolo vero e proprio.
Dopo il discorso del “popolo di sinistra”, arriva il discorso del leader, del tiranno che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome. Il tiranno parla ai suoi servi, così li chiama, senza remore, senza dover fingere di governare per il loro bene. Celestini immagina così i politici di oggi, molto più smaliziati rispetto ai leader democristiani, sempre attenti a non esibire troppo il loro potere. Leader pronti a dire “cazzi vostri” a tutti i disgraziati che non arrivano a fine mese. Lo sfondo è quello di una guerra civile, tutti hanno paura di mostrarsi e di parlare a voce alta, così i tiranni in erba vogliono conquistare l’attenzione dei sudditi dicendo la verità.
Stavolta i leader hanno preso “coscienza di classe”, rubandola ai proletari. E’ la classe dei “possessori d’ombrello”, che domina un mondo in cui quasi nessuno ha l’ombrello durante la pioggia, pertanto umiliano e sfruttano, mettendo sotto i loro piedi chi è sprovvisto di riparo. E’ la classe dei “possessori di pistola”, metafora weberiana del potere politico (uso legittimo della forza), sempre pronta a mettere una rivoltella sul tavolo, non per usarla quanto per la potenzialità di usarla. In quest’ottica gli elettori, il popolo, è una sommatoria di bersagli, nulla di più.
La classe dei “bersagli” ha vissuto, grazie ai referendum, una primavera che sembrava la premessa di una rivoluzione sociale e politica. Poi si è perso: si è accontentato dell’auto a rate, la tv, il nuovo telefonino. Un proletariato imborghesito nei consumi, che ora chiede a quegli stessi politici, che lo sfruttano quotidianamente, di schiacciare i nuovi poveri, il sotto-proletariato, i tanti immigrati che cercano il “sogno italiano”. Un popolo indifferente, che sta alla finestra e assiste all’eterna battaglia tra chi ha l’ombrello da mesi e chi invece vorrebbe un posto sotto l’ombrello. Una “classe di complici” in ultima istanza.
Arriviamo così all’ultimo leader, il più pericoloso, quello che può governare con il 99% del consenso. Come ci riesce? Semplice, non gli serve una maggioranza costituita in base alle idee, basta che sia una maggioranza. E se quella beve bibite gassate, si farà il partito del rutto. Celestini così illustra la ragione del detto “salvare capra e cavoli”, ovvero fare in modo che il popolo delle pecore mangi il popolo dei cavoli, e infine quello dei lupi divori quello delle pecore. Alla fine rimane il popolo dei lupi, l’unica maggioranza, e il tiranno può dire: “Non siete voi che avete scelto me, sono io che ho scelto voi”.
Tanta ironia amara quindi nel monologo di Celestini, che in questo studio mette in sequenza lavori già editi (su La7 e Rai 3) e altri inediti, stretti insieme dal leit motiv del potere che parla senza peli sulla lingua, intermezzati da brevi registrazioni di discorsi “politici”: Bush, Craxi, Giovanni XXIII, Mussolini.
Dopo questa galleria di “maschere” del potere non c’è un happy ending, solo la possibilità di una soluzione: il mondo non cambia da solo, mentre noi stiamo alla finestra, ma ciascuno di noi deve impegnarsi e spendersi in prima persona per migliorarlo, e questo passa necessariamente dal contemplare un’alternativa. Se i tiranni mostrano le proprie scelte come le uniche possibili, sta ai sudditi riprendersi il senso della democrazia, che è la capacità di scegliere, non tanto il partito o il leader da votare, quanto il senso da dare alle parole, il potere di nominare le cose con il proprio nome. Per fare ciò sono necessarie trame di “vicinato” che permettano effettivamente al “cittadino” d’incidere sul luogo in cui vive, di conoscere il suo prossimo.
Lo spettacolo è stato nel complesso coinvolgente, nello stile tipico di Celestini, che non lascia mai spazi deboli nelle argomentazioni serrate dei suoi personaggi. La forza dell’opera di Celestini, per quanto sia ancora uno studio, è che riprende perfettamente quell’approccio colloquiale, intimo, che cercano i leader con il popolo, quasi fosse un’opera di seduzione. Per questo i Discorsi alla Nazione non sono solamente un’ottima metafora del potere contemporaneo nella scelta delle parole, ma anche nella scelta delle pause, degli sguardi, delle posture. Sono i discorsi a mano armata di un amante, in una storia che già nelle premesse ha del tragico.
Insieme al collega Vittorio Gualtieri di Pisanotizie raggiungo Celestini dopo una decina di minuti dalla fine dello spettacolo per fare una piacevole chiacchierata a tutto campo tra politica, poteri forti e barbieri di Roma. La chiacchierata dura molto più dell’intervista vera e propria. L’attore e regista romano è un fiume in piena e soprattutto molto affabile nei modi, direi che è stato come parlare con un vecchio amico.
Report a cura di Giuseppe F. Pagano
Foto di Andrea Casini