Dopo l’affascinante dissertazione sull’essere e il divenire, sul generarsi e il creare, condotta da Simone Lenzi e Luca Mori durante la serata di lunedì, il Festival Collinarea ci offre una secondo opportunità di guardarci dentro e riflettere sulle infinite sfaccettature del nostro animo, che emergono nei momenti salienti della nostra vita o anche nei più banali e inaspettati.
Il lungo lavoro di analisi testuale è stato lampante per tutto lo svolgimento dello spettacolo, difatti una delle cose che abbiamo ho notato di più è stata la puntuale fedeltà al testo originale, fattore che se da una parte ha forse reso un tantino prolissa la rappresentazione, dall’altra ha messo in evidenza l’attenzione per la parola, per l’espressività massiccia di ogni lemma, per il ritmo serrato con cui il protagonista affronta il suo “io” non più monolitico e granitico come pensava, ma la sua malleabilità, scomponibilità, mutabilità.La Compagnia Laboratorio di Pontedera ci guida attraverso la molteplicità della natura e della psiche umana con lo spettacolo “Gengè”, un’accurata ripresa del testo pirandelliano “Uno, Nessuno e Centomila”, diretto da Roberto Bacci, regista di teatro che nella sua carriera ha avuto modo di affrontare Pirandello altre volte, portando sul palco “L’uomo dal fiore in bocca” e “La poltrona scura”.
Molto ben riuscita la tripartizione del personaggio messa in scena in maniera impeccabile da i tre attori protagonisti, Savino Paparella, Francesco Puleo e Tazio Torrini.
Muniti di sole tre sedie e vestiti di camicia rossa, giacca e pantaloni, madidi di sudore per il gran caldo del piccolo teatro, sono riusciti a rappresentare l’uscita dall’univoca realtà che Gengè aveva sempre creduto vivere, l’inquietudine dell’uomo scisso irrimediabilmente in molte e confliggenti personalità, la rivoluzionaria presa di coscienza di poter essere altro.. o forse no.
Gli attori della compagnia hanno utilizzato la manipolazione della voce, in un tagliente altalena tra i toni composti della lucidità e quelli striduli e affannati della psicosi, la mimica facciale sempre volta a mettere in scena il disequilibrio mentale di Gengè di fronte alla nuova scoperta, i movimenti del corpo, a riempire una scena povera di “props” e a concretizzare l’oscillazione di coscienza del protagonista.
A suggellare i passaggi di scena più rilevanti, dalla scoperta dei difetti fisici, a quella della nomea di usuraio a seguito dei loschi affari paterni, alla volontà maturata di voler liquidare la “banca” di famiglia, all’incontro-scontro con gli incartamenti lasciati marcire in quel luogo, passando per l’incontro col suocero e quello fatale con Anna Rosa, amica della moglie, le musiche di Ares Tavolazzi, celeberrimo contrabbassista italiano, membro storico degli Area.
Nessuno di questi passaggi risolve però il dilemma di Gengè, la possibilità o meno di operare in maniera autonoma sulla propria vita, di fuggire dal dato biografico e anagrafico per ricostruirsi un’identità: dall’opera emerge lo sconcertante dato di irrimediabilità al multiforme animo umano, per cui occorre porsi in atteggiamento di contemplazione della realtà, senza la consolazione che essa sia unica e oggettiva, piuttosto un agglomerato di sensazioni e fatti che si liquefanno subito sopo il loro compimento, così come la personalità umana, pronta a morire e rinascere ciclicamente in altro da sè.
Lo spettacolo della compagnia pontederese è riuscito ad andare a fondo alla questione del mutamento, della poliedricità, della duttilità della psiche umana, rendendo fantasticamente omaggio al drammaturgo italiano che forse più di chiunque altro ha indagato sulle maschere che ogni giorno indossiamo o che gli altri ci mettono addosso, convinti di condurre una vita di sostanza, mentre attorno a noi continuamente tutto muta e noi con esso.
Dalle atmosfere di introiezione dell’animo umano, ci spostiamo – qualche minuto dopo la fine di “Gengè” – sul castello di Lari, dove “partecipiamo” (è corretto l’uso del verbo partecipare) ad una performance molto interessante. Si tratta di “Scene da un matrimonio”, un progetto di Roberto Castello, con tre interpreti (Fabio Pagano, Irene Russolillo, Mariano Nieddu). L’incipit è dei più particolari: entriamo nel cortile interno del castello accolti dagli sposi e da un terzo personaggio, l’accoglienza prevede anche la distribuzione di spumante agli invitati. Il pubblico si dispone a cerchio intorno alla “scena”. Musiche d’ascendenza balcanica in sottofondo ci fanno pensare ad un matrimonio serbo (o macedone?). Tanto l’abbigliamento vistoso quanto i baffi dei due comprimari ci proiettano in un clima di “barocco rom”.
Da qui si prende vita lo spettacolo, fatto di situazioni piuttosto ironiche. I due sposi s’immobilizzano improvvisamente per offrirsi agli esperimenti di postura messi in atto dal terzo misterioso personaggio. E poi ancora altri sketch, come il silenzioso dialogo tra gli sposi, coadiuvato da vignette scritte. Serio e faceto s’inseguono senza sosta in scene che progressivamente attraggono la partecipazione del pubblico: prima lancio di doni nuziali, poi altro giro di brindisi. La narrazione si svolge per quadri successivi, e fanno via via emergere il dramma dentro la situazione comica. Il terzo personaggio ama la novella sposa, ma è costretto a fare da “testimone” al loro matrimonio, e quindi a rinunciare al suo amore.
Particolarmente interessante, nel quadro di questa performance, è la dimensione della danza e della corporalità, oltre che della mimica facciale. La citazione, invece, del linguaggio fotografico omaggia il film “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman. Quasi tutto si svolge infatti senza l’ausilio della parola. Il finale, che non vi raccontiamo, è davvero d’effetto. Vi basti sapere che tutti gli spettatori partecipano, dai più grandi ai più piccoli, in una climax di grottesco e metaforico, che tra le righe lancia una critica al matrimonio, visto come una gigantesca mole di problemi.
Il progetto di Roberto Castello, che non lesina in colori e dinamismo, ricorda alcuni esperimenti futuristi in Europa dell’Est (Polonia). Forse il limite della situazione spaziale scelta per l’occasione a Lari è la “chiusura” del cortile del castello, che rende impossibile la realizzazione del “corteo” nuziale. Credo che l’esibizione negli spazi aperti della città permettano allo spettacolo di avere ancora più frecce nella propria faretra. Nonostante questo lieve impedimento spaziale, lo spettacolo è comunque frutto di uno sguardo divertito e divertente sulla coppia, dalla festa sino allo psico-dramma.
Francesca Gabbriellini – Giuseppe F. Pagano