Pistoia blues, atto primo: the King is back!

La prima serata al Pistoia Blues si presenta come uno degli eventi che ti segnerà personalmente per un bel pezzo. Infatti il vostro reporter non è mai stato ad un concerto di BB King, per quanto ormai da anni i suoi dischi girino sul mio lettore. E sono proprio questi momenti in cui sono felice di vedere un festival con gli occhi tanto del giornalista, quanto del fan.

La serata per noi inizia alle 19, con l’arrivo a Pistoia, dopo numerosi contrattempi che ci costringono a partire in ritardo da Pisa. Quando arriviamo la città è in gran fermento, come sempre. Sul palco di piazza Duomo già stanno suonando i Chicago Blues Revue, interessante formazione pistoiese, che regala un bel blues anni ‘50. In particolare si lascia notare il chitarrista, che regala in diversi momenti ottimi assoli. La piazza risponde bene, non solo perché loro sono pistoiesi, ma perché il pubblico della serata è diverso da quello che c’era durante il concerto del giorno prima. Poi raggiungiamo il chitarrista Giacomo Ferretti nel backstage per fare due chiacchiere e conoscere meglio questa band.

Foto dei Chicago Blues Revue

 

Subito dopo ascoltiamo una vera e propria meraviglia, si tratta degli Swingtet capitanati da Maurizio Geri, che non si collocano propriamente nel blues, ma offrono un gipsy jazz con contaminazioni balcaniche e nordafricane. La tradizione della chitarra manouche è riletta in chiave originale, anche grazie all’assortita formazione che accompagna Geri: fisarmonica, clarinetto, contrabbasso, e chitarra classica. Mai sentito qualcosa del genere al Pistoia blues, sono una vera sorpresa. Anche in questo caso il pubblico è piuttosto coinvolto e sembra rapito dall’esotismo sonoro offerto da questa band. Noi non perdiamo tempo, e subito dopo la loro esibizione facciamo due chiacchiere prima con il clarinettista, e poi con Maurizio Geri che ci rilascia un’intervista.

Foto di Maurizio Geri e Swingtet

Link alle foto della serata.

 

Ma non finiscono le sorprese, infatti facciamo in tempo ad uscire dal Palazzo del Comune per ascoltare i ritmi indiavolati di Paul Ubana Jones. Noi non lo vediamo direttamente, perché siamo ancora nel retropalco, ma stentiamo a credere che sia un solo musicista a suonare. Quella chitarra acustica suona come se ci fossero tre mani sopra. Ha una voce che ricorda molto la tradizione caraibica dei ritmi in levare, ma lui è neozelandese, ed è nato in Inghilterra, con un padre nigeriano. Agli ascoltatori italiani potremmo dire che somiglia vagamente a Il Pan del Diavolo per quanto batta duro sulla chitarra, ma in realtà sappiamo benissimo che farebbe il culo a tutti i chitarristi indie in circolazione. Per quanto si esibisca da solo, infiamma la piazza, la trascina, la rende partecipe con cori. È una scena incredibile vista dal retropalco.

Dopo il riccioluto chitarrista è il momento di altra gente che terrà alto l’entusiasmo, ovvero Gerry McAvoy’s Band of Friends. Con loro si entra in un territorio che non è più semplice blues, ma sfocia quasi nel rock. Per intenderci McAvoy è stato bassista per vent’anni di Rory Gallagher. La loro performance è un tributo proprio al chitarrista irlandese, che con il suo blues/rock ha conquistato fan in tutta Europa e non solo. Alla chitarra e voce c’è Marcel Scherpenzeel, e il cui tocco non è niente male, considerando che ci troviamo alle prese con la rievocazione di una leggenda.

Mentre gli amici degli amici di Gallagher suonano ci accorgiamo con nostro disappunto che la fotocamera ha la batteria scarica. La tragedia incipiente ci spinge a chiedere una fotocamera in prestito a dei colleghi di una web-radio senese. Ma in realtà ce ne faremo poco, perché l’accesso sotto palco prima del concerto di BB King sarà garantito a dieci fotografi selezionati. Siccome a noi piace fare polemica, ci chiediamo: “selezionati in base a che? Alla bravura dei fotografi? Oppure in base all’importanza della testata?”. Questi misteri ci logorano lo stomaco sino all’arrivo della band al completo di BB King sul palco. “Lucille”, ovvero la Gibson ES–335 nera che BB King suona come Uto Ughi suona il suo Stradivari, è poggiata al centro del palco, aspetta solo il suo arrivo.

La piazza è davvero piuttosto gremita, ci saranno circa 3500 persone. Quando arriva la band del Re trema tutto, e anche il mio cuore salta il colpo. I sette elementi messi insieme fanno almeno 600 anni di esperienza musicale. C’è James Bolden  (tromba, band leader), Tony Coleman (batteria), Reginald Richards (basso), Walter King (sax), Melvin Jackson (sax), Stanley Abernathy (tromba), Charles Dennis (chitarra). Insieme sono una macchina da guerra, e lo dimostrano nel primo pezzo. Suonano alternandosi sul palco nel ruolo di solista, in attesa che il Re entri in scena. E dopo questo preludio ampiamente rappresentativo delle potenzialità della band, entra finalmente BB King, accolto da un’ovazione. Vestito con una camicia dai colori frizzanti, prende posto al centro del palco, si siede e introduce i membri della band, prima di avviare la serata con “I Need You So”.

King, con i suoi 86 anni, sembra amare ancora visceralmente l’esecuzione, oltre a mantenere un rapporto confidenziale con il pubblico per tutta la notte. La leggenda blues scherza anche con i membri della propria band, che dirige come fossero orchestrali. Ha preso in giro anche il bandleader e trombettista James “Boogaloo” Bolden, per le sue abilità da ballerino, prontamente dimostrate sul palco. Si dimostrano davvero amabili in questi momenti, e soprattutto BB King è di una simpatia incredibile. Il maestro del vibrato solo dito, esegue da seduto tutti i pezzi, ma mette tutto il suo corpo nella sua performance, inclinando le spalle, gettando di nuovo le mani e la testa, mentre il suo volto si contorce per rivelare una serie di emozioni. Lo guardi e non fai a meno di ammirarlo.

Il nativo del Mississippi ha avuto sempre un vero e proprio talento per permettere a un pubblico di una grande piazza di sentirsi come se fossero in un cortile per un barbecue. Si crea affinità tra vicini. Intanto BB King avrebbe potuto trascorrere la notte con spirito, raccontando storie e tirarando fuori one-liner, ma per fortuna, l’ottantenne va ancora a giro per il mondo per fare quello che sa fare meglio: cantando e suonando il blues. La velocità di esecuzione forse è un po’ dilatata, ma non importa, sembra anzi somigliare a “slow hand”. Suona dei gran classici come “Key to the Highway”, “When Love Comes to Town”, “The Thrill is Gone”, “Guess Who” e “Rock Me Baby”.

Più tardi nella serata, il bluesman ha affascinato le donne e le aveva fatto cantare “You Are My Sunshine”, inducendo a baciarsi con un uomo a loro scelta. La notte vola, e il concerto – durato appena un’ora – finisce in un lampo. Un’esecuzione allungata di “When the Saints Go Marching In” chiude la scaletta, e ancora una volta BB King presenta i suoi compagni di viaggio. Poi c’è il lancio di oggettistica varia, come plettri e altre cose che non ho ben capito, verso il pubblico. Sottopalco si picchierebbero per avere una reliquia del Re. Osservo divertito tutta la scena. Quando i nostri concludono il concerto ed entrano nel retropalco, la piazza è incredula, in molti aspettano un ritorno. Ma la presenza dei tecnici che smontano la batteria rende evidente che lo spettacolo è finito.

Noi si rimane a fare due chiacchiere con i colleghi, poi facciamo un salto all’Orange Jazz Club, dove come ogni anno ci sono dei musicisti con i “contro” che fanno jam session. Anche il primo giorno di Pistoia blues le aspettative non sono tradite, si alternano giovani musicisti che accompagnano una ragazza, la cui voce si sente a cento metri di distanza dal locale. Rimaniamo una mezz’oretta, il tempo di riposare anche le gambe dopo cinque ore di maratona. Poi ripartiamo, alla volta della strada in cui è parcheggiata la Radioeco-mobile.

Prima di andare però c’imbattiamo in curiosi personaggi della notte pistoiese, i primi sono due tipi che animano una chiesa, aperta nella notte, in cui cantano e suonano vari ragazzi. È una scena insolita vedere una chiesa aperta a quell’ora con gente che canta dentro, in un certo senso sono anche più piacevoli di quelli che suonano i “bonghi” nel centro, senza essere africani, e quindi privi di senso del ritmo. Il problema è che questi due tipi ci agguantano immediatamente, pensando che siamo due anime in pena (in parte ci hanno azzeccato, nel senso che avevo una brutta cera), che vogliamo avvicinarci a Dio, o cose simili. Insomma, ci spiegano il senso di quella chiesa aperta, dell’incontro con il divino che può avvenire a tutte le ore, e poi ci fanno mille domande su cosa facciamo e da dove veniamo. La mia collega, più atea di me, è visibilmente in imbarazzo, io per il sonno non sapevo più chi ero. I due ci lasciano andare con una frase sibillina, accompagnata da una mano sulle nostre spalle: “Ricordatevi che la vita non finisce qui”. E io avrei voluto dire “Sì, sì, mò me lo scrivo”.

Prima di partire l’ultimo incontro è un barista gioviale, originario di Prato, che ci racconta un po’ come è il luglio a Pistoia e il carattere dei pistoiesi. Inoltre ci rivela il torpore della città che prende piede in inverno. Allora ripenso che tutto il mondo è un po’ Pisa. Salutiamo il barista che sta per chiudere, e si va verso la macchina. A questo giro non ci perdiamo, merito anche del buon caffè che abbiamo bevuto.

report e interviste a cura di Giuseppe Flavio Pagano

foto e video di Giuditta Panzieri 

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