Succede che durante gli anniversari in Italia tutti riescano a rivalutare tutto, da Craxi a Mussolini, perchè – si sa – la cifra tonda autorizza sempre al revisionismo. Così venti anni dopo Tangentopoli si tende ad assolvere il povero Cusani, poiché la dimensione della corruzione oggi forse ha superato persino quel “pudore” che vigeva tra fine anni Ottanta e anni Novanta. Mentre interi consigli regionali vengono spazzati via da avvisi di garanzia, come se le disgrazie non arrivassero mai da sole, tornano di moda anche gli 883, che proprio vent’anni fa diedero alla luce quell’album intitolato “Hanno ucciso l’uomo ragno”.
Accade che le “piccole mafie” della musica indipendente italiana, vuoi perché vogliono proporre una facile ironia, vuoi perché il momento nostalgia ti coglie sempre quando hai trent’anni e non hai concluso niente nella vita, vuoi perché effettivamente gli “indie” di oggi erano i discotecari di ieri, hanno concentrato i loro sforzi artistici per partorire un disco tributo (“Con due deca”) al duo Pezzali-Repetto, che ha coinvolto moltissimi artisti, sotto l’egida di Rockit, webzine che rappresenta il luogo di coltura e ritrovo ideale per chi voglia fare musica pop anti-convenzionale (si fa per dire!).
Come se non bastasse sono arrivate anche le ristampe “20th Anniversary Edition” del grande successo nazional-popolare. Però si tratta di una ristampa che non prevede la più classica delle operazioni di packaging + maglietta figa. No, hanno pensato bene di mescolare insieme le esperienze più di retroguardia dell’hip-hop italiano (Dogo, Emis Killa, Ensi, Fedez, Entics, Two Fingerz) in un ennesimo tributo alla pochezza dei testi di Pezzali. Non perdiamo neanche tempo a commentare il risultato di questa fusione tra ortaggi. Quello che invece coglie la nostra attenzione è altro, è il plauso della critica verso queste operazioni nostalgia.
Tutto parte da un equivoco, ovvero la pretesa dei “critici” (perlopiù tutti nati dopo il 1984) di ritrovare nell’immaginario “poetico” di Pezzali il racconto della provincia italiana, dei loro luoghi, della loro età e delle loro frustrazioni. Già negli anni Novanta, per quanto non fossi un accademico, mi era chiara che la rappresentazione della vita che emergeva da quelle canzoni era basato su un spazio semantico piuttosto ristretto: il problema principale sembrava essere rappresentato dalla disponibilità di fica chiavabile e dal saper dove trascorrere il sabato sera con gli amici.
Io non so in quale generazione questa “critica” abbia vissuto, i luoghi e le compagnie che abbia frequentato, però mi azzardo a dire che le problematiche cantate dagli 883 e dai loro fan sono indice di una mentalità povera, con una esistenza ridotta ai minimi termini dei fabbisogni primari, priva di slanci e motivazioni, oscillante tra una sindrome di “deprivazione relativa” e l’accontentarsi di false soddisfazioni per gareggiare con gli “altri”, quelli della “compa”.
Potremmo riassumere questo spirito in un due parole: “l’individualismo proprietario”, quello che poi permise a Berlusconi e Bossi di far prosperare i loro partiti e portare allo sfascio il Paese. Quello stesso “individualismo proprietario” in cui si consumò il delitto dei coniugi Maso. Chi ha un po’ di memoria di cronaca nera sa il contesto di cui stiamo parlando, e le frustrazioni di provincia che si coagularono in quella brutta storia.
Questa odierna rivalutazione nel campo dell’indie strappa quel velo di ipocrisia che stava a coprire quel cumulo d’oscenità che è la cultura egemone in Italia: anche chi si spaccia per raffinato intenditore di musica in realtà è, sempre e comunque, un italiano medio che, avendo ascoltato in tenera età gli 883, si riconosce tutt’ora in quei testi considerandoli spaccati veritieri sulla vita di tutti i giorni. Ma quella è la “vostra” vita, non la mia, non quella di tanti miei coetanei.
Bisogna smetterla con sta pantomima dei “cantori” di una generazione, perché c’era una provincia italiana negli anni dello stragismo mafioso che aveva altri problemi. Non era il fatto di non esser riusciti a recuperare il numero della cubista a toglierci il sonno, ma faccende assai più serie. Io non ascoltavo ancora i Sonic Youth nel 1992, ma c’era mio padre che metteva le cassette di De Andrè in macchina, e ci trovavo una magia in quella voce che il raglio nasale di Pezzali non mi ha mai dato. Non ero un indie ante-litteram, ma sono stato educato al bello, nel pieno della provincia meridionale, e non invidiavo per niente quelli più grandi di me, anzi non me ne fregava niente di frequentare i loro ambienti. A differenza dei “critici” nostrani, posso dire di aver avuto una bella infanzia e ora sono un 27enne orgoglioso di non entrare negli album Panini della provincia più debosciata.
La verità è che, se dopo vent’anni, si sente ancora l’esigenza di celebrare quella realtà fatta di mediocrità emozionale, di ambizioni piccolo-borghesi, di canzoni orecchiabili in 4/4, di reflussi gastrici di edonismi fuori tempo massimo, vuol dire che anche quelli che giocano a fare “l’avanguardia” musicale in Italia (sia i musicisti, che tutto il baraccone di contorno) sono i primi incapaci di “pensare” un cambiamento, di “sentire” la bellezza, pertanto possono essere benissimo piazzati nella raccolta differenziata sotto la voce “reazionari”. Pertanto “fare” l’arte, raccontarla, selezionarla, promuoverla, non fa per questa gente.
Dai “critici” mi aspetto sguardi più profondi sulla realtà, tanto quella storica quanto quella spirituale (per parlare di arte è necessario avere questi occhi speciali). Se questi occhi vi mancano, fate un altro mestiere, magari ritornate nelle discoteche. Non sentiremo davvero la vostra mancanza.
Il Retrofuturista è a cura di Giuseppe Flavio Pagano