Domenica 6 maggio è stato tempo di ritorni: il Partito Socialista all’Eliseo e la Juventus sul trono dell’Italia pallonara. Ma in questa rubrica ci concentriamo soltanto sul secondo evento. Il 2-0 rifilato al Cagliari sul “neutro” di Trieste e la contemporanea sconfitta del Milan nel derby riportano la Vecchia Signora in Paradiso dopo anni di purgatorio. Vincere è sempre fantastico, ma farlo dopo che si è sofferto regala un’emozione ancora più intensa. La gioia di Buffon, Del Piero, Chiellini, Marchisio, scesi in B con questa maglia, non è e non può essere la stessa di Matri o Bonucci. C’è un gusto particolare nel rinascere: c’è l’orgoglio dell’uomo che non soltanto non si è arreso dinanzi alle prove che la vita (sportiva, of course) gli ha riservato, ma ha saputo esserne più forte.
E questo spirito di rivalsa, è bene sottolinearlo, prescinde (in gran parte) dal senso di ingiustizia che può essere stato avvertito: chi ha vestito la casacca bianconera nella serie cadetta ha oggi una fierezza che non deriva tanto da una sensazione soggettiva di ingiustizia, bensì da una condizione oggettiva di sofferenza. In altre parole, questa felice ribellione che traspare dalle parole di Buffon e Del Piero è molto più figlia del “sacrificio” di aver accettato di giocare a Crotone a due mesi di distanza dall’esser diventati campioni del mondo, piuttosto che della voglia di rivendicare a tutti i costi (che comunque c’è sicuramente) i due scudetti tolti in seguito a Calciopoli.
Perché dico questo? Perché credo sia opportuno imparare a distinguere. Perché è nei dettagli che si annidano le differenze più importanti. Perché a Buffon, Del Piero e Chiellini può essere concessa una parola in più, un’affermazione più forte. Hanno vinto sul campo due scudetti che la giustizia sportiva ha poi revocato e, senza voler entrare nel merito del giusto o sbagliato, è onestamente difficile chiedere a questi giocatori di non sentirli loro: in quei due anni ogni giorno hanno sudato per migliorarsi pensando che quella fosse la sola strada per vincere ed è naturale che facciano fatica a scucirsi di dosso due tricolori che si sono visti togliere per colpe altrui. Che siano colpe di loro (ex) dirigenti cambia poco nel contesto di queste considerazioni.
Ma mentre Buffon, Del Piero, Chiellini possono essere in qualche modo capiti, altri lasciano perplessi: Bonucci a che titolo rivendica i trenta scudetti? Va bene sei il difensore della Juve campione d’Italia, l’euforia fa brutti scherzi, la voglia di essere un beniamino dei tifosi pure, ma goditi il momento, è il tuo primo scudetto, non spetta a te, ma ad altri semmai (se proprio non si può fare a meno di non chiudere il passato) rivendicare quei titoli che hanno conquistato mentre tu giocavi in Primavera. E pure te, Marotta: ok, sei il direttore generale, rappresenti la società Juve, ma questa, non l’altra, perciò glissa su questa patetica conta, anche solo per dare un segnale di cultura sportiva, almeno nella festa. E invece no, sembra che tutti, o quasi, facciano a gara nel cavalcare i “moti della pancia”, il sentimento dei tifosi, che non hanno mai messo in discussione l’operato di Moggi e compagni.
Soltanto Conte, il principale artefice di questo scudetto, ha usato una battuta che con elegante diplomazia ha dribblato la questione: alla domanda sulla terza stella, ha infatti risposto:”Per me è il primo”. Magari intimamente la pensa come Marotta, ne sono quasi certo, ma quando sei un personaggio pubblico mandare certi messaggi non è segno d’ipocrisia, quanto d’intelligenza. Ecco perché Delio Rossi ha sbagliato in conferenza stampa, quando ha detto: “Mi ha dato fastidio il falso perbenismo e l’ipocrisia. Che differenza c’era se avessi preso Ljajic a pugni nello spogliatoio? Sarebbe stato lo stesso”. No, non sarebbe stato lo stesso. Sarebbe stato lo stesso solo nei confronti del giocatore serbo, che comunque sarebbe rimasto l’oggetto dei cazzotti, ma a livello d’immaginario collettivo cambiava tutto, e quando sei un personaggio pubblico che agisce in un contesto pubblico, i tuoi gesti hanno una valore decisivo nella costruzione di quell’immaginario collettivo sulla base del quale la società costruisce le proprie rappresentazione e i propri sistemi di valori.
PS: Le parole “sofferenza”, “sudore”, “fatica”, “sacrificio” , “spirito di rivalsa”, “ingiustizia”, utilizzate in quest’articolo, ovviamente sono da riferire soltanto all’ambito sportivo. In tempi di crisi mi sembra una precisazione doverosa.