L’irresistibile declino del radical chic

“L’IRRESISTIBILE DECLINO DEL RADICAL CHIC”

Qualche settimana fa è uscita l’opera prima di una giovane rocker della scena indipendente italiana. Lei si chiama Ilenia Volpe e il disco s’intitola “Radical chic un cazzo”. Il titolo, oltre a essere d’impatto con i suoi caratteri cubitali, fotografa un grido che nella società italiana arriva da più parti.

Come ha sostenuto già Mariarosa Mancuso sulle pagine del “Corriere”, il governo Monti sembra aver irrimediabilmente sparigliato le carte della lotta armata all’ora dell’aperitivo. «I radical chic si aggirano smarriti: senza un nemico da combattere rischiano la fine dei panda, e non si capisce quale Wwf li possa salvare dall’estinzione» scrive la Mancuso. I dati Auditel sembrano confermare questa inversione di tendenza: sono deludenti le prestazioni dei programmi televisivi “rifugio” della classe media riflessiva: Servizio pubblico e Piazza Pulita, ma anche The Show Must Go Off di Serena Dandini e le Invasioni Barbariche di Daria Bignardi viaggiano su share che oscillano tra il 2% e il 5%. Male anche l’esordio della Costamagna su Raitre con un 3,70%, mentre L’Infedele di Lerner è sempre a quota 4%. Solo Ballarò sfiora il 12%, mentre l’unico a stare in buona salute è il salotto di Vespa con share superiori al 12%.

I programmi televisivi in poche parole non riescono a voltare pagina dopo l’uscita di scena di Berlusconi, non riescono ad elaborare un’alternativa a livello di format che non sia il trito e ritrito talk show. Ma il problema non è solo il format, perché a stancare è il linguaggio stesso dei radical chic. Hanno vinto le amministrative a Milano e a Napoli, hanno trionfato anche per i referendum, e forse anche le recenti vittorie li rendono più indigesti. Inoltre la presenza di una maggioranza politica come quella berlusconiana era necessaria a tenere “alto” il livello dello scontro tra “opzioni”. Berlusconi, in poche parole, “tirava” perché “divideva”. Allora, nel clima di divisione del Paese, era facile l’emersione di facili manicheismi tra la cultura cafonal e pop del berlusconismo e la cultura “alta” del dandy-socialismo.

Oggi il governo tecnico propone sfide che non si possono affrontare con gli schieramenti classici, per questo la militanza dei liberal si trova disorientata. Basta notare la confusione che regna dentro il Pd e nei giornali che fanno capo all’ex minoranza divenuta oggi maggioranza: Scalfari si scaglia contro l’articolo 18, facendo improbabili comparazioni storiche tra Danzica, gli eccidi, e il simbolismo oltranzista di questo articolo. Per contro il segretario Bersani manifesta non pochi dubbi sulla nuova riforma del lavoro proposta dal ministro Fornero. Poi ci sono le già note anime “riformiste” del Pd, vedi alla voce Veltroni e Ichino, che hanno più feeling con Confindustria di quanta ne abbiano con con la CGIL e il mondo del lavoro. E la CGIL stessa è dilaniata da divisioni, e non sono poche le distanze tra la Camusso e Maurizio Landini. Le divisioni si erano già palesate sull’affair TAV in Val di Susa, rendendo palese il fallimento del modello di pensiero radical chic, che sosteneva i valsusini in tempi di guerra (cioè durante il governo Berlusconi), mentre li tacciava di anti-modernità in tempi di pace.

Oggi vediamo i radical-chic citare a memoria Pasolini mentre mangiano un piatto di bulgur. Se un tempo citavano Pasolini per dire che la tv inaugurava una nuova forma di fascismo, oggi lo citano per difendere il “povero” carabiniere coperto d’insulti durante la manifestazione dei No-Tav. Li vediamo arrampicarsi in polemiche sulla liceità o meno delle battute de “I soliti idioti” sugli omosessuali, oppure bandire manifesti su mobilitazioni femministe di retroguardia. Li troviamo sempre alla solita mostra milanese di Marina Abramović, mentre lei per sette ore al giorno guarderà negli occhi i visitatori, senza dire una parola, e i visitatori guarderanno lei senza avere nulla da dire.

Riciclarsi in tempi di crisi è difficile, e le vecchie “tane” di riferimento della cultura “alta” stanno venendo meno: gli Adelphi si stanno apprestando a pubblicare l’opera omnia di Fleming, lo scrittore di 007. Alcune produzioni musicali indipendenti, cavallo di battaglia dei nemici delle major e del mainstream, vendono così tanto da far interrogare gli ascoltatori: “ma davvero siamo così fighi a seguire Brondi ora che lo conoscono tutti?”. Il mercato dell’editoria o della discografia indipendente indulge sempre di più verso l’auto-pubblicazione, così sembrano finiti i tempi in cui auto-produrre un libro o un disco era uno stigma di dubbia qualità, oggi invece è molto “trendy”, perché l’autoproduzione rievoca il mito del rapporto diretto tra produttore e consumatore: nessun ostacolo tra l’io e il mondo. Va da sé che senza una cernita a monte, l’esercito dei nuovi artisti si è ingrandito a dismisura, svuotandosi però di ogni dignità autoriale.

La battaglia culturale dei radical chic perciò si declina nella conoscenza dello scrittore o del musicista semi-sconosciuto, nell’ultimo editoriale di Travaglio, ma raramente avanza sino a teorizzare nuove pratiche di partecipazione civica. Lo testimonia quanto accaduto a Palermo, con la classe media riflessiva spaccata tra il “vecchio mondo” clientelare del giovane Ferrandelli e il “nuovo mondo” di Rita Borsellino, un confronto che porterà il centro-sinistra verso la sconfitta certa.

Vale però precisare che la schermaglia tra radical chic e anti-radical chic è sempre il “salotto”. È sempre quello il luogo in cui ci si esercita intellettualmente sui gusti letterari e sulle affinità elettorali. Pertanto queste mie osservazioni non vogliono prendere parte alla diatriba se sia meglio Kant o Fabio Volo, M2o o RadioTre. La crisi economica ha messo in luce anche latenti crisi d’identità, così che “terze vie” possano nascere da queste superate punzecchiature “novecentesche” tra illusi e disillusi. Alla lunga i lettori di Amartya Sen su Ipad hanno stufato come l’estetica del Drive In, per questo sarebbe meglio gridare “Radical chic un cazzo” e, tanto individualmente quanto collettivamente, costruire identità su più strati, coltivando il legittimo sospetto che ogni “parrocchia” stabile faccia il gioco del regresso.

 

Il retrofuturista è a cura di Giuseppe Flavio Pagano

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