“NUOVE FORME DI PIGRIZIA, OVVERO IL GIORNALISMO ITALIANO AL TEMPO DI TWITTER”
Un curioso fenomeno prolifera tra le maggiori testate d’informazione nazionale, più o meno da un anno a questa parte. Nelle versioni online dei quotidiani, i giornalisti ricorrono spesso a lunghe compilazioni di dibattiti che si svolgono su Twitter e Facebook, oppure (più sporadicamente) in qualche forum. Gli argomenti sono tra i più svariati, ma l’attenzione primaria è rivolta alla politica interna. In tale modo i lettori possono essere messi al corrente dei pensieri del “facebookiano” o “twittarolo” medio su un dato argomento, senza offrire però realmente qualcosa che sposta il discorso in avanti, che proponga un reale approfondimento della notizia.
Sembra quasi, che i giornalisti, in mancanza di notizie concrete, o – peggio – in affannosa crisi d’ispirazione, cerchino nella rete quella capacità analitica che invece hanno smarrito. È come se un giornalista sportivo, per acchiappare la notizia, non andasse allo stadio, ma preferisse lo scambio di opinioni tra tifosi dentro un bar. La metafora non è peregrina, perché Twitter e Facebook sono i luoghi privilegiati dello scontro tra tifoserie, oppure del parlarsi addosso all’interno di confortevoli “parrocchie”, ovvero le pagine dedicate a questo o quell’argomento. La pretesa tacita che hanno queste “cronache da stadio” (fuori dallo stadio) è di voler essere rappresentativa degli umori del Paese, di un partito, o di fascia generazionale, etc. Volendo usare un’altra metafora, sono gli scarabocchi per la spesa al supermercato stilati da quattro gatti che pretendono di diventare l’analisi statistica dei consumi delle famiglie italiane.
Non sorprendono perciò le prese di posizione di Gramellini e Michele Serra a proposito di Twitter, forse lo strumento più “ascoltato” dalle nuove forme di giornalismo all’italiana. Ha il vantaggio di essere breve, e si presenta più come “social media” che come un vero e proprio “social network”. Twitter preferisce la battuta tagliente al dibattito vero e proprio; nella sua ottusa contemporaneità non ammette le declinazioni al passato, o le proiezioni al futuro. Pertanto è il terreno di caccia ideale per molti commentatori nostrani. Inoltre Twitter è diseguale, nel senso che non tutti gli utenti sono uguali.
L’iscritto a Twitter è abituato a trattare con alcuni numeri: quanti tweets (messaggi contenenti al massimo 140 caratteri) produce, quanti followers (altri iscritti a Twitter che lo “seguono”) e following (iscritti che egli a propria volta segue) ha, in quante “liste” compare etc. Le Twitstar, in questa “competizione” verso l’effimera fama, sono quelli che hanno “i numeri”. Poi esiste lo strumento del “retweet” che moltiplica i potenziali destinatari/lettori del messaggio, e ciò permette a un singolo tweet di superare la soglia dei propri “seguaci” e di sbarcare tra nuovi potenziali lettori. Un retweet è quasi una droga per molti utenti, ancora più desiderato del “mi piace” di Facebook. Rappresenta una nuova forma ibrida di narcisismo e socialità, a tal punto che molti richiedono il retweet agli utenti Vip, così da poter attrarre nuovi “seguaci”. Lo strumento del retweet è molto utile quando c’è da divulgare velocemente notizie, ma è diseguale nella pratica quotidiana: in mano a una twitstar ha un’efficacia maggiore rispetto al comune uomo appena sbarcato sul social media.
Oltre alle perplessità sull’uso di Twitter che fanno i giornalisti nel reperimento di “dibattiti” da bar, poi ci sono altri limiti. Basta collegarsi su Twitter un sabato sera per notare tra gli hashtag, cioè le notizie più dibattute, non un argomento come l’articolo 18, bensì “Ballando con le stelle”. Ora sembrerà un’esagerazione descrivere questo social media come un moltiplicatore d’inutilità e frivolezza, perché Twitter a suo tempo ha sostenuto mobilitazioni di ogni tipo, dai No-Tav alla campagna per la liberazione di Rossella Orru. Però, per rimanere in tema, proprio la mobilitazione per la liberazione della Orru è nata per un’iniziativa di Fiorello, ormai apprezzato “guru” di questo strumento. Quindi è come se le attenzioni per determinate tematiche siano, in qualche modo, dominate o indirizzare da un gotha di opinion-leader, che spesso creano l’hashtag della giornata. A questo punto Twitter diventa un talk-show tra famosi e popular wannabe. Niente di meno rappresentativo di quello che pensa il Paese, inutile persino in analisi di tipo statistico. L’utente di Twitter è un editore, cioè seleziona i contenuti che vuole leggere, perciò la lettura della propria Timeline è una sorta di esercizio di altruismo narcisista, in cui gli altri sono seguiti nella misura in cui ci somigliano, in cui ci sono simpatici, e in cui condividiamo le loro idee. Il risultato è un cicaleccio impotente, come lo definisce Serra, o ancora meglio: una nuova forma di autismo corale.
La brevità non è sempre sinonimo di sinteticità, così come la sinteticità non è sempre sinonimo d’intelligenza. Per questo Twitter, come anche Facebook, sono strumenti utilissimi nelle mani dei populisti, che prediligono schieramenti manichei, ironie corrosive, giudizi sommari. La realtà è già di suo assai complessa, soprattutto quando si parla di argomenti come la politica interna, la società, la morale; i giornali tentano di disidratare questa complessità attraverso una selezione di notizie e – ovviamente – una selezione dello sguardo con cui guardare ai fatti. Sintetizzare ulteriormente un argomento attraverso il resoconto dei dibattiti su Twitter o Facebook non permette di esprimere alcun avanzamento rilevante nell’analisi della notizia, semmai la impantana in siparietti di estremismi che fanno torto all’intelligenza del lettore, e dovrebbero far torto anche alla carriera dei giornalisti più pigri.
Il retrofuturista è a cura di Giuseppe Flavio Pagano
Redazione News