“NOI CREDEVAMO… MA ARRIVO’ L’ATEISMO ANCHE NEL DIRITTO”
Ci stiamo avviando verso il terzo mese di governo Monti, e sembra che gli italiani abbiano fatto in fretta a dimenticare quelli che sono i problemi del Paese, come se il “problema” fosse stato incarnato nella figura di Berlusconi e dei suoi sodali. Quindi tramontato il governo Berlusconi, tutto va bene, e anche l’austerity è stata accettata di buon grado, senza troppi veti.
Però possiamo dire, paradossalmente, che l’uscita di scena del Cavaliere ha contribuito a fare un po’ di chiarezza sui limiti strutturali che attanagliano la politica italiana degli ultimi tre decenni. Lontano dai clamori delle tifoserie mediatiche, sui pro e contro Berlusconi, possiamo vedere con nitidezza quali siano i veleni disseminati nell’ultima generazione, tossine contro cui un cambio di governo non saprebbe dare antidoti.
Guardando agli eventi della settimana spicca senz’altro la decisione con cui la Cassazione ha annullato, con rinvio, la sentenza d’Appello, in cui si condannava il senatore Dell’Utri a sette anni di reclusione. Il reato era quello di concorso esterno in associazione mafiosa. In pratica, il processo di secondo grado dovrà essere rifatto, a Palermo, davanti ad altri giudici.
Quanto accaduto, di fatto, costituisce un precedente che mette in seria discussione la ratio stessa del reato di “concorso esterno” in associazione mafiosa. La Suprema Corte si è dimostrata tentennante di fronte all’evidenza di frequentazioni assai discutibili, quasi scuotendo il capo e dichiarando “queste frequentazioni, da sole, non costituiscono un reato”.
Non sorprende più di tanto che il Procuratore Generale di Cassazione (tale Francesco Mauro Iacoviello) che ha pronunciato la requisizione in favore dell’annullamento della sentenza, vanta nel proprio curriculum la richiesta e l’ottenimento dell’annullamento delle condanne di Squillante per IMI-Sir e di De Gennaro per il G8, e la conferma dell’assoluzione di Mannino e della prescrizione per Berlusconi nel caso Mondadori.
Come in tantissime altre occasioni (per esempio la strage di Piazza Fontana) la verità giudiziaria è distante anni luce dalla verità effettuale. E l’opinione pubblica, pur non avendo le prove, sa quasi tutto quello che si deve sapere. Stavolta, però, c’è l’aggravante: un reato, la sua stessa esistenza nel Codice Penale, è messo in discussione. Il concorso esterno in associazione mafiosa è diventata materia da secolarizzazione giuridica, cioè “non ci crede più nessuno”, e quindi teoricamente tutti potremmo ricoprire cariche pubbliche ed essere confidenti di Cosa Nostra, basta non dare troppo a vedere il “dolo generico”.
La politica potrebbe colmare questo gap? Potrebbe, cioè, dare un giudizio politico e morale in sostituzione di una sentenza non emessa? In Italia questa sarebbe pura fantascienza, perché un vulnus giuridico del genere potrà – e sarà – utilizzato a livello bipartisan. Ogni partito, infatti, deve fare i conti con chi è più corruttibile di altri. E forse la verità sta proprio qui: il politico “esemplare” deve essere corruttibile. Questo non è un retaggio della Prima Repubblica, ma una costante nella storia che va da Craxi ai giorni nostri. Inquadrare storicamente il “caso Dell’Utri” ci permetterà di capire la complessità del terreno che stiamo toccando.
Sullo sfondo dei processi che hanno visto imputati Andreotti, Mannino, o Dell’Utri, ci sono storie che non riguardano soltanto gli imputati, ma semmai lasciano trapelare una fitta ragnatela politica, fatta di salvacondotti e reciproche coperture. Ci sono le trattative Stato-mafia, con tutti i “figuranti” del caso: Ciancimino, l’ex colonnello Mori, l’On. Mancino, e poi Paolo Borsellino, l’unico ostacolo alla negoziazione. La filigrana è dunque la stagione stragista, che va dal 1979 (anno in cui inizia la guerra tra i Corleonesi e gli affiliati ai clan di Bontate, Inzerillo, Badalamenti) fino alle stragi mafiose di Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze e Milano.
Facendo un campo lungo, poi c’è il quadro economico di un’Italia che produce ricchezza e antistatalismo al Nord, e produce clientele e connivenze politico-mafiose al Sud. Agli occhi del Nord lo Stato è solo tasse, inefficienza, burocrazia, spesa pubblica inutile, agli occhi del Sud è qualcosa che non esiste, che non dà lavoro, che non dà protezioni.
E poi ci sono i “montatori” della fiction nazionale, ovvero l’oligopolio informativo, che in vent’anni hanno detto tutto e il contrario di tutto. Hanno formato e informato berlusconiani e antiberlusconiani, vendendo le loro “verità” come un prodotto, secondo le consolidate leggi dell’economia di mercato. Nell’ottica di mercato hanno tentato, ognuno nel suo campo, d’indire crociate contro una manciata di capri espiatori: Cusani, Craxi, Andreotti, Berlusconi, etc.
Il “processo”, da raccontare, dissezionare, svelare, è diventato dunque materia preziosa, come l’oro ai tempi dei conquistadores di Cortez. Però s’ignora come dietro questi oligopoli informativi (Rai, Mediaset, Gruppo L’Espresso, RCS) ci sono le stesse fitte trame politiche che si addensano dietro i processi, quei regolamenti di conti tra caste. Le assoluzioni e le condanne così diventano oggetto di tifoseria, indipendentemente dalla capacità della magistratura di poter “ricostruire” la storia recente d’Italia.
Nessun processo, finora, è riuscito a mettere un punto fermo nella direzione della conferma dell’esistenza di un’organica sinergia tra mafia e politica. La difficoltà è sempre quella: provare il coinvolgimento dei politici all’interno delle trattative Stato-mafia, trovare le prove delle “mani sporche”. Un processo da solo, inoltre, servirebbe a illuminare solo uno dei nodi della ragnatela, mentre molti lati continuerebbero a rimanere in ombra. Quindi, la condanna di Dell’Utri, da sola, non risolverebbe molto. Viceversa, la mancata condanna di Dell’Utri lancia ombre inquietanti sullo stato di diritto.
Ne deriva che, per avere un minimo sindacale di certezza del diritto, per non esternare disprezzo verso le istituzioni, almeno un Dell’Utri ogni vent’anni deve essere sacrificato. Però si tace sulle connivenze plurali, bidirezionali, di piccolo e medio taglio, tra politica e mafia. Soprattutto quando ci sono grandi opere da fare, come una ricostruzione de L’Aquila o una Tav in Val di Susa, su cui tutti sono d’accordo. Ancora una volta la politica esemplare è quella che, sotto il nome di modernizzazione, diventa fulcro di ogni corruttela, somma d’interessi di parte.
La modernizzazione, concetto chiave nato in epoca craxiana, è opportunamente sostenuta dai “montatori” dell’informazione, che ciclicamente si stracciano le vesti o gioiscono per gli esiti di qualche processo, ma chiudono anche da decenni gli occhi sui “concorsi esterni” che tentano di “regolarizzare” la zona grigia che intercorre tra potentati economici, interessi politici e organizzazioni criminali. Anche l’imprenditore De Benedetti, a capo del gruppo L’Espresso, è stato imputato in diversi processi, come bancarotta fraudolenta e finanziamento illecito ai partiti, uscendone “quasi” pulito. Dunque, se anche i “montatori” della fiction nazionale non sono immuni dai mali della società italiana di cui narrano, ecco che il “concorso esterno” diventa un concetto teologico, impalpabile, a cui non crede più nessuno. Forse dovremo aspettare i tempi lunghi della storia, e capire quali siano le responsabilità collettive che hanno reso lo “stato di diritto” una sorta di religione data in pasto ai fondamentalisti della forca o all’ateismo degli impuniti.