Tre le nuove parole che la crisi economica ci ha costretto a imparare negli ultimi tempi, come “rating”, “spread” o “default”, non manca tra le pagine dei giornali il temine “eurobonds“, soprattutto da quando è esplosa la crisi del debito degli stati dell’Unione Europea.
Ma andiamo per ordine.
Come funziona l’emissione dei titoli di stato?
A cadenze regolari, il Ministero del Tesoro mette all’asta i suoi titoli di stato, poniamo i btp. Lo fa per acquisire liquidità che gli servirà per le sue funzioni, dalla spesa pubblica per le infrastrutture agli stipendi dei dipendenti statali. Così facendo, contrae un debito nei confronti degli acquirenti, ovvero si impegna a ripagare la cifra versata entro una data stabilita… con tanto di interessi.
Lo Stato avrà ovviamente interesse a vendere il titolo all’acquirente che, a dato prezzo, accetta il tasso di interesse più basso! Ma che succede se (come adesso) all’asta nessuno accetta di comprare il btp con un interesse inferiore al 7%? Il 7% è un interesse molto alto, quindi difficile da ripagare, soprattutto in un periodo di crisi. I titoli di stato rischiano così di diventare “spazzatura”: nessuno li vuole, perché è dubbia la capacità dell’emittente di ripagarli.
Gli stati membri dell’Unione Europea vivono una specie di “paradosso monetario”: le banche centrali degli stati membri vendono titoli di stato in valuta “straniera” (l’euro!), in quanto non hanno controllo diretto sulla valuta: non possono stampare moneta a loro piacimento.
Mi spiego meglio.
Se nel 1995 da un lato l’Italia aveva interessi sui suoi titoli di stato molto alti, dall’altro gli investitori avevano la garanzia della Banca d’Italia: in caso di crisi, la Banca avrebbe stampato moneta e si sarebbe fatta prestatore di ultima istanza per ripagare i debiti.
Ma adesso non è più così. Se compro un btp con un tasso di interesse piuttosto alto, chi mi dà garanzie che verrà ripagato? nei Trattati dell’UE, si attribuisce alla BCE il ruolo di avere cura della stabilità finanziaria, e soprattutto dell’inflazione. Non spetta quindi a lei emettere titoli di stato comunitari, o tanto meno costituire una garanzia finanziaria per i titoli degli stati membri.
Si capisce allora perché molti economisti e politici oggi, primo fra tutti José Manuel Durão Barroso ,attuale presidente della Commissione Europea, spingano per gli eurobonds: titoli europei legati alla valuta unica e garantiti dalla BCE.
Gli eurobonds potrebbero essere una delle possibili soluzioni alla crisi del debito. Se costruiti come titoli estremamente sicuri, e regolati da strette misure di controllo, potrebbero costituire un mercato sicuro e calmare i mercati.
Mario Draghi ha però posto il suo fermo “no” a questa possibilità, citando il contenuto dei Trattati, la cui modifica per accogliere questo nuovo strumento non sarebbe certo una cosa da poco.
Ci sono poi i sostenitori di un’altra “via di fuga” dalla crisi del debito, coloro (spesso gli stessi degli eurobonds, che vedono le due misure come alternative o complementari) che pensano che la BCE dovrebbe iniziare a ricoprire ufficialmente il ruolo di “lender of last resort”, prestatore di ultima istanza.
Molti sono i tedeschi contrari a questa possibilità: si teme infatti che i paesi più deboli della periferia europea, i cosiddetti PIGS (Portugal, Italy, Greece, Spain) si sentirebbero autorizzati a non porre alcun freno all’indebitamento pubblico, e non si disturberebbero con misure di austerity per risanare le finanze pubbliche. Al contrario, i paesi più virtuosi dovrebbero “pagare” questa misura. L’economista Hans Werner Sinn è il primo a sottolineare come interventi di salvataggio o di prestiti di ultima istanza non farebbero che disturbare i naturali aggiustamenti del mercato, e scoraggerebbero gli sforzi dei governi.
Diversamente la pensa Paul Krugman, premio Nobel per l’economia nel 2008, e il “nostro” Tito Boeri: la BCE sta di fatto già agendo come prestatore di ultima istanza su mercati secondari, ovvero acquistando titoli italiani dalle banche o investitori privati che vogliono liberarsene. Lo fa da più di un anno, annunciando gli acquisti senza però specificare l’ammontare e la qualità dei titoli acquistati.
In gergo si chiama una “self-fulfilling prophecy”, un proposito che basta da solo affinché l’effetto voluto abbia luogo. E’ vero che i Trattati non prevedono che la Banca Centrale agisca come prestatore di ultima istanza.
Ma è vero anche che se vogliamo davvero essere “comunitari”, uniti non solo da una banconota ma anche nei destini, dovremmo entrare nell’ottica di sostenerci a vicenda e mettere da parte le esigenze specifiche dei singoli paesi… magari per diventare un giorno gli Stati Uniti d’Europa.
Chiara Calastri
Redazione News