Spesso si sente dire che quando un campionato è incerto, aperto, con molte squadre in pochi punti, è un campionato più bello, più divertente da seguire, perché ogni domenica possono esserci ribaltoni d’umori e colpi di scena, dove la mancanza di partite scontate aumenta attesa, pathos e adrenalina.
Se certamente non si può respingere in toto questa tesi, è opportuno però fare alcune considerazioni, che sorgono quasi spontanee dopo la giornata di ieri, dove nelle gare del pomeriggio, cinque, si sono segnati appena due gol, per giunta nella stessa partita; le altre, tutte zero a zero, con buona pace di chi aveva comprato il biglietto per godere di uno spettacolo.
Già, lo spettacolo, questo sconosciuto. Il calcio non è uno spettacolo, ribatteranno i molti amanti del “conta solo il risultato”, i fautori del fine che giustifica i mezzi, de “l’importante è che si vinca, poi come, pazienza”. E però se questa logica diventa totalizzante, escono pareggi: si mettono in campo squadre di soldatini, si bandiscono estro e fantasia, si insiste su muscoli, sostanza e corsa, ma poi la casella delle reti resta vuota. Il gol, l’essenza del calcio, relegata ed eventualità. Sicuramente si è trattato di un caso ieri pomeriggio, sicuramente una combinazione così chissà quando si ri-verificherà, e però resta il fatto che in Italia, dopo le primissime giornate in cui nessuno ha niente da temere, la paura di perdere si impossessa degli animi dei protagonisti più di quanto non lo faccia la voglia di vincere.
Il punto è che l’Italia calcistica, salvo rare eccezioni, non ha pazienza di costruire, si vuol ottenere tutto in fretta e gli errori di crescita non sono ammessi. E quindi: via dai titolari il giocatore potenzialmente bravo ma che, provando a giocare la palla senza buttarla in tribuna, la perde; via gli allenatori che pur facendo giocare a calcio le proprie squadre raccolgono meno di quanto meritato, e così via. Ora, non voglio essere utopico o ipocrita, nel calcio, come nello sport, il risultato deve, e sottolineo deve, pesare nel giudizio di un’atleta, di un tecnico o di un dirigente. Ma non può essere la stella polare in vista della quale sacrificare tutto il resto.
Le società, in estate, devono programmare con lucidità, con la consapevolezza delle opportunità, ma soprattutto dei rischi che potranno incontrare nel loro cammino, in modo che alla prima tempesta non si facciano cogliere impreparati, iniziando a nutrire dubbi sul capitano del vascello, sulle scelte fatte. E invece spesso nel calcio italiano si improvvisa, tanto poi se si sbaglia si cambia. Soltanto che quelli che hanno paura di esser cambiati, che sono gli allenatori, al fine di mantenere il proprio posto di lavoro, giustamente anche dal loro punto di vista, si dimenticano che bisognerebbe provare a vincere, e non soltanto a non prenderle, con la conseguenza che impostano le partite per distruggere il gioco altrui piuttosto che per imporlo, sacrificando la tecnica in favore del fisico possente.
E questo purtroppo parte sempre più spesso anche dalle scuole calcio (sebbene a parole negli ultimi anni si dica di voler invertire questo trend, ai posteri l’ardua sentenza) ambiente dove si dovrebbe insegnare una cultura sportiva e i fondamentali di base del gioco del calcio, invece che a perdere tempo quando si vince, a propinare la cattiveria agonistica a bambini di 10 anni, a inibire la fantasia di un colpo di tacco perché guai se si prende un contropiede.
Il calcio non potrà mai essere uno spettacolo alla stessa stregua di un’opera teatrale o di un concerto, non conosce lo sport chi sostiene certe cose, però nel calcio, e nello sport, si deve giocare, quando si è nella possibilità di farlo, per vincere, per superare l’avversario, facendo più gol di lui, più canestri di lui, più schiacciate di lui, più rovesci di lui. Non sperando che l’avversario sbagli di più: è una strada perdente, che non può che condurre alla sconfitta. Non si può pareggiare per sempre. Vale la pena provare a vincere.
Andrea Salvini
Redazione Sport