Nei tempi comandati dalla sintassi giornalistica dell’ “eterno presente”, questo editoriale arriva tardi, volutamente. Arriva anche di notte, dopo che gli eventi si sono apparentemente raffreddati. In un mese si è consumata la peggiore congiuntura astrale per l’Europa e non sono stati in molti ad accorgerse.
L’11 aprile la Lega ticinese, formazione affine alla Lega Nord, straripa alle elezioni nel Canton Ticino, con uno slogan molto chiaro “Via gli italiani!”. I manifesti adottati nella campagna elettorale ritraevano gli italiani come ratti.
Il 18 aprile l’Ungheria ha approvato a larga maggioranza delle modifiche costituzionali dove, oltre ad aumentare i poteri dell’esecutivo e i controlli sui media, lo Stato è definito nella sua essenza nazionale, etnica, non più istituzionale. Infatti non compare più nel testo la parola Repubblica. E poi ancora: tutela della famiglia, difesa della Chiesa, difesa del feto come priorità. Niente menzioni dei diritti delle minoranze, ebrei, rom o gay.
Ma un giorno prima dei fatti magiari, in Finlandia il partito dei “Veri Finlandesi” aumenta le quote di consenso alle ultime elezioni, salendo al 19%, più o meno ai livelli di conservatori e socialdemocratici. Inutile dire che i “Veri finlandesi” hanno vinto con una martellante campagna euroscettica tutta imperniata non solo sulla xenofobia ma soprattutto sui costi del salvataggio dei paesi dell’Europa meridionale membri dell’Unione monetaria. Praticamente una declinazione scandinava della Lega, dove la Roma ladrona è Bruxelles, e i terroni sono tutti i non-finnici.
Poi ci sono i fatti di casa nostra, Lampedusa, i tunisini e la Lega. Già, la Lega. Un partito di lotta e di governo si diceva una volta, una forza politica che da un lato deve rispondere a delle precise volontà xenofobe dei propri elettori, cioè “niente clandestini in Padania”, e dall’altro lato ha un ministro sul Viminale che usa lo sbarco di 25.000 tunisini come benzina da buttare sul fuoco di vecchi rancori anti-europei. “Mi chiedo se ha senso rimanere nell’Unione: meglio soli che male accompagnati” dixit Bobo Maroni.
Fin qui ho elencato vecchi e nuovi nemici dell’Europa e delle diversità, i vecchi e nuovi sbandieratori dell’ethnos e del populismo. Poi c’è la vecchia Europa, sempre più a fondo quanto a grado di credibilità e autorevolezza. Una guerra alla Libia a far da maschera a un totale smarrimento politico di fronte alle rivoluzioni in Maghreb. Teoricamente ha sovranità in materia di migrazioni, ma è praticamente un fantoccio in mano ai voleri dei singoli governi nazionali. Non ha una politica verso i Paesi arabi, taglia i fondi alla cooperazione e sviluppo, affida ai singoli Stati la gestione di trattati per governare il fenomeno migratorio. Di fatto è l’Europa stessa a favorire i suoi detrattori nel momento in cui dichiara fallito il multiculturalismo. Ma occorre ricordare a Cameron e Merkel che il multiculturalismo non è una dottrina sociale o politica, un programma elettorale che può essere realizzato o disatteso, è piuttosto un fenomeno che esiste, e da parecchi secoli peraltro. Va capito, va immaginato in una prospettiva a lunga scadenza, lontano dalla schiavitù del consenso immediato, fuori da quel “breveterminismo” elettorale che caratterizza la navigazione a vista di molti governi europei e, tragicamente, potrebbe portare al loro affondamento. Il multiculturalismo, per quanto apparirà paradossale a qualcuno, è un volano per superare la spirale di crisi identitaria (prima ancora che economica) in cui è caduto il Vecchio Continente.
Quando parlo d’identità, non parlo della ricerca di lontane ascendenze comuni tra me e il mio vicino di casa, che è diventato un argomento in mano alle ultra-destre. Parlo dell’identità di oggi, in cui si sommano tante culture, tante memorie e tanti luoghi persino in un solo individuo, parlo dell’identità democratica che ci accompagna nell’esercizio della cittadinanza, dell’identità che accoglie la diversità per rigenerarsi. Le città europee sono venute meno a questo mandato, hanno reso solo il cittadino globale, trasformando questa solitudine in senso di rancore, ricerca di centralità, di esclusività locale da opporre all’aggressione globale. La xenofobia, mai capita fino in fondo, è figlia di questa insicurezza, di chi era ricco e ora non lo è più, di chi non lo è mai stato, racconta la paura di chi teme di perdere quote di mercato tra qualche mese, è la storia di chi era certo e non lo è più. La paura dell’uomo cattivo, nata come risposta alla globalizzazione, in realtà è la finestra da cui entrano i poteri globali per governare, allentando vincoli sociali e senso civico. Come dire: preso atto che non abbiamo un’identità perchè noi stessi l’abbiamo distrutta, i nuovi autoritarismi sono pronti a sostituire queste radici con un racconto rassicurante: “una casa in cui abitiamo solo noi è la più sicura”. Il gioco è facile: più si è spaventati sotto il profilo economico, più si è disposti a credere all’uomo della Provvidenza di turno e più il “locale” diventa la tomba della democrazia.
Che fare? Ci sono cose che non si possono fare perché maturano nei tempi lunghi e l’elettorato capisce solo i risultati immediati, spiegava recentemente l’economista Raghuram Rajan. Tuttavia questi investimenti vanno fatti, ad ogni costo, per evitare che a suon di maggioranze venga smantellato il sogno europero per trasformarlo nell’incubo del campanile. Vanno edificate politiche comunitarie di inclusione per gli immigrati, che pongano fine agli egoismi elettorali dei singoli Stati membri. Servono istituzioni comuni per promuovere durature relazioni con gli altri attori del Mediterraneo, magari evitando in futuro di stornare risorse a regimi autoritari. Servono mezzi coercitivi, inoltre, per fermare in tempo derive autoritarie come quelle che stanno avvenendo in Ungheria. Occorre, insomma, una riscrittura dei patti europei alla luce di un mondo che cambia, che cerca democrazia e trova un’isola (leggi Lampedusa) come avamposto di barbarie, un Viminale isterico, e un Eliseo guerrafondaio e una Helsinki popolata da leghisti in salsa vichinga. La sfida per il vecchio continente è riscrivere se stesso con tante braccia, un po’ come accade alla tanto vituperata America: “Out of many, one”!
Giuseppe F. Pagano